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Roma in un Panorama firmato Tommaso Pincio

“La vita non cerca veramente il nuovo, il diverso, l’inaspettato. Tende alla somiglianza, cerca ciò che può riconosce, che ha già visto sentito annusato, cerca il ritorno, cerca uno specchio”. Così inizia il capitolo 5 del nuovo romanzo di Tommaso Pincio: “Panorama”. Libro che inaugura una collana e dà lustro immediato a un nuovo editore (milanese), la NN che ringraziamo per la concessione del brano.


Un libro gravido di mistero e assonanze, veritigini e gravità. Urgenze nel tempo e del tempo (per quanto non esplicito). Per quanto esplicita sia la visione. Già nel titolo. Roma c’è sin troppo. Nelle premesse e nelle conclusioni che leggerete anche in “uscita”. Dall’acquisto nella libreria di piazzale Appio del citato “Bruges la Morta” di Georges Rodenbach alla piazza Vittorio del testo che abbiamo estratto. Ma è una Roma  – come già in altri libri di Pincio – che non è rinvenibile al presente. Al tempo. E persino alla visione. Buona lettura: del brano. E buon acquisto dell’opera che caldeggiamo.

 

 




La vita non cerca veramente il nuovo, il diverso, l’inaspettato. Tende alla somiglianza, cerca ciò che può riconosce, che ha già visto sentito annusato, cerca il ritorno, cerca uno specchio. Tale è la potenza della somiglianza che ogni qualvolta ci imbattiamo in una sua manifestazione, vi attribuiamo più o meno irragionevolmente un significato. Tale è la potenza che non sarebbe assurdo affermare che non scorgeremmo alcun senso nelle cose se queste cose non somigliassero ad altre cose. Nulla più delle parole somiglia alle cose che esse nominano, eppure cos’è in concreto una parola?

Come quasi ogni vita umana, il destino di Tondi si compì per via di una somiglianza. Era infatti una notte di febbraio quella in cui la sua carriera di lettore venne orrendamente interrotta sul ponte che scavalca il Tevere all’altezza di piazza di Trilussa. Una notte fredda, ma fino al calare del buio il sole aveva spadroneggiato, sicché in città si era goduto un tepore molto simile alla giornata di falsa primavera in cui Ottavio Tondi incontrò il giornalista del Presente per l’intervista che gli portò fama, denaro, agiatezza e una specie di felicità. Questa somiglianza giocò un ruolo decisivo nell’incastrarsi degli eventi. Non fosse stato per essa, Tondi non si sarebbe mai trovato alle quattro del mattino a camminare sui sampietrini di ponte Sisto, leggendo Bruges la Morta di Georges Rodenbach, il libro che per poco non gli costò la vita.

Quel mattino, uscendo di casa, la somiglianza lo aveva assalito con una furia selvaggia. Solitamente Tondi era piuttosto impermeabile ai segnali del mondo esterno. Le sole cose in grado di scuoterlo nel profondo erano quelle che leggeva nei libri, ma quel mattino non poté fare a meno di sentirsi travolto. La somiglianza lo portò al chiosco di piazza Vittorio dove si sedette in solitudine, pensando alla mattina dell’intervista e a ciò che ne era scaturito. In sostanza pensò al tempo, ai tredici anni che, da allora, erano volati come frecce. Era un quarantenne adesso, aveva la stessa età che aveva suo padre il giorno in cui il robivecchi si portò via i libri di sua madre. Anche questa era una somiglianza, e non da poco. Pensò infatti che soltanto il risentimento che provava nei confronti del padre lo avesse indotto a concedere quell’intervista. Non voleva farla, ma ne aveva bisogno per vendicarsi, per dimostrare al genitore che, leggendo, era possibile conquistare una gloria preclusa a un miserabile contabile preoccupato unicamente di escogitare stratagemmi per eludere il fisco.

Col passare degli anni, il risentimento si era estinto. Era con pietà che adesso pensava a suo padre. Con pietà e forse anche con una punta di rimorso nel cuore. Si era difatti convinto, non importa con quanta fondatezza, che l’intervista del Presente avesse scavato tra loro un abisso letale. Dopo di allora suo padre aveva abbandonato ogni scrupolo morale. Gli stratagemmi per eludere il fisco divennero sempre più criminali, come pure i suoi assistiti. In capo a un paio di anni si ritrovò coinvolto in uno di quegli scandali immani che ciclicamente esplodono nell’affarismo della capitale. Fu prima indagato e poi arrestato. La stampa non gli perdonò nulla. Non meno inclemente si dimostrò il torbido ambiente nel quale aveva sempre sguazzato. Un mattino Tondi padre venne trovato suicida nella cella e non si capì mai, o non si volle capire, se la testa infilata in un sacchetto di plastica fosse stata una sua scelta o un consiglio che dovette seguire.




Tondi figlio pensava a che ne sarebbe stato di lui, se si fosse piegato ai voleri del padre. Dello studio Tondi e dei beni che decenni di consulenze fiscali avevano portato alla famiglia non restava più nulla. Lo scandalo aprì una voragine di spese e debiti che risucchiò tutto. Si era a stento salvata la casa in via dello Statuto e, grazie all’intervista che aveva accettato di fare più per vendetta che per convinzione, ora l’ultimo degli Ottavio Tondi aveva comunque di che vivere dignitosamente. D’altro canto, se non l’avesse fatta, suo padre non avrebbe deragliato, le cose sarebbero andate avanti come in passato e lui, non potendo certo campare di letture, avrebbe infine ceduto, si sarebbe laureato per dedicarsi all’impresa di famiglia, anche se probabilmente con un po’ più di moralità del padre. Ma quest’ultima era soltanto un’ipotesi, un’idea che si era messo in testa per punirsi, per alimentare un senso di colpa. Lo scandalo sarebbe scoppiato comunque, intervista o no, e Tondi lo sapeva bene, anche se preferiva non ammetterlo apertamente.

Comunque sia, qualunque fosse la verità delle cose, qualunque versione preferisse darsi dei fatti, una cosa era certa: il tempo era volato. Eppure, per via di quella primavera ingannevole, seduto al tavolino del chiosco di piazza Vittorio, era per Tondi come non fosse passato nulla tra il mattino dell’intervista e l’uomo maturo di adesso. Si sentiva giovane nonostante tutto, forse perfino vigoroso. Nell’osservare la strada che scendeva verso Santa Croce in Gerusalemme, giunse alla conclusione che fosse insensato consentire alla malinconia di prendere il sopravvento. Non è andata così male in fondo, pensò. Il meglio deve ancora venire. Il futuro è adesso, addosso a me.

Non gli capitavano spesso simili vampate di entusiasmo, stabilì quindi che fosse il caso di festeggiare, di concedersi un po’ di svago. Concedersi un po’ di svago, per lui, significava chiamare Maddalena, ma per far ciò dovette tornare a casa. Diversamente dal resto dell’umanità, non si era provvisto di un cellulare.

Vuoi che ti legga qualcosa? gli domandò lei, riconoscendolo all’istante dalla voce, e siccome lo sentì indeciso, aggiunse: Preferisci leggere tu?

Non so, forse sì, disse lui.

Beh pensaci, puoi decidere anche all’ultimo o fare entrambe le cose, lo sai.

Posso restare anche per cena?

Certo, porta qualcosa però.

Lui tentennò di nuovo. Cosa vuoi che porti?

Scherzavo. Quello che ti pare, anche niente.

Maddalena era una massaggiatrice. Quel certo genere di massaggiatrice cioè. Lei si definiva però una studentessa che, a tempo perso e per pagarsi gli studi e comunque soltanto per un ristretto circolo di persone fidate, forniva, oltre a massaggi più professionale detti, il genere di prestazioni che è inutile specificare. Era iscritta a lettere, e questo ovviamente a Tondi piaceva, anche se era parecchio che lei non dava un esame. Gli piaceva anche il nome, Maddalena, trovandolo esotico e peccaminoso, e ovviamente gli piaceva lei, il cui corpo, minuto e dominato da una liscia cascata di capelli neri e lunghissimi, aveva probabilmente poco di esotico pur essendo molto peccaminoso. Gli era stata presentata dal direttore editoriale della Bianca, che abitava nel suo stesso palazzo e faceva parte del ristretto di circolo persone fidate.

Prima ancora di presentargliela, il direttore editoriale gli aveva chiarito senza mezzi termini che genere di ragazza fosse, omettendo del tutto il lato studentessa e ironizzando su quello massaggiatrice.

Una escort, gli disse.

Dal tono compiaciuto, quasi impostato, Tondi capì che il direttore editoriale adorava quella parola e difatti la usava spesso, riempiendosene la bocca con gusto, come fosse un termine magico o particolarmente raffinato.