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Alberto Sordi: bugia e romanità

L’intro di “Alberto Sordi. Passeggiate sui set”, uscito per Ponte Sisto nel 2013.

Un eroe per errore: il profilo della bugia e la romanità

Ci sono tanti modi di essere eroi. Ad Alberto Sordi è toccato in
sorte quello involontario. Si è fatto maschera di un cinismo arrangiato
e pasticcione finendo però per diventare, al contrario, l’immagine felice e vincente di chi riesce. Un equivoco che ha reso il suo programmatico anti-eroe un eroe fuori programma. Ma è storia antica

per gli italiani, e segnatamente per i romani, destinati a celebrare
l’autorità e a ossequiarla, indipendentemente dal segno che porta.
La quintessenza della popolarità di Sordi non è stata il cupio dissolvi
del perdente che sa di esserlo e lo mistifica rallentando il corso
della caduta piuttosto la pochezza di un gladiatore che, nonostante
la minorità, trionfa con mezzi d’accatto e colpi bassi. Eppure la
congiunzione tra romanità e Alberto Sordi ha due facce come una
moneta non meno falsa a seconda che la si guardi dalla testa o dalla
croce.

Per semplificare, diciamo che Sordi è per Roma un divus
vincente, per il resto del mondo l’incarnazione del pressappochismo
capitolino. Due visioni entrambe equidistanti dal vero.
Fellini, che lo sceglie nel 1952 per interpretare il suo primo film da
regista unico (dopo la coregia di Luci del varietà, il 1⁄2 di che ritornerà
celebrato all’ottava pellicola), Lo sceicco bianco, e nel 1953 per
farne uno de I vitelloni, aveva colto (approfittando del suo passato d’avanspettacolo e teatro di rivista e di più di una ventina di pellicole) le potenzialità di tale antieroicità e forse ha contribuito a plasmarla e a lasciargliela in dote con tutti gli interessi dell’insperato vantaggio correlato.

Non mancano di notarlo G. Fofi, M. Morandini, G. Volpi ne La Storia del cinema: “Solo che quelli che Fellini addita come difetti – la maschera emblematica della piccola borghesia centro-meridionale coi suoi vizi capitali: cinismo, qualunquismo, mammismo, servilismo, strafottenza, bidonismo, bigottismo, ipocrisia – vengono recepiti come costanti comiche ambigue che, non controllate da testi e registi di solida moralità, si ribaltano spesso in vaga, compiaciuta esaltazione”.

Per semplificare, potremmo dire che chi si trova per le mani Sordi ha un’arma di potenziale offesa e deve maneggiarla con cura. E il monito potremmo estenderlo al Sordi regista
alle prese con il Sordi attore.

D’altronde, siamo lontani dall’understatement e dalle tinte popolari trasfigurate nel colore o nel guizzo di un Aldo Fabrizi o di un Renato Rascel (la romanità maschile cinematografica contemporanea).

Eppure, come anche all’alter ego felliniano Mastroianni (una specie
di Doinel-Léaud truffauttiano), non è che a Sordi manchi la gamma:
la malinconia “vitellona”, la bonaria e illusa naïveté (ad esempio
quella del romano-americano Nando Mericoni). Ma, come spesso accade alle maschere, una qualità finisce per prevalere su quella appena minore e tutto il contorno sfuma in alone.




Founder e direttore di "Perdersi a Roma" collabora con Il Messaggero, il Venerdì e Nuova Ecologia. Ha pubblicato libri di prose, poesie e narrativa di viaggio tra cui "Letti" (Voland), "AmoRomaPerché" (Electa-Mondadori), "La gioia del vagare senza meta" (Ediciclo), "Fùcino" (Il Sirente), "Il mondo nuovo" (Mimesis), "Andare per Saline" (Il Mulino) e "I segni sull'acqua" (D editore).