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Capodanno di gioia, anzi no

Capodanno. A Roma. Riguardando il film di Mario Monicelli “Risate di gioia”, anno 1960.

La critica non è mai stata generosa con il film di Mario Monicelli “Risate di gioia”, anno 1960. Questa pellicola monicelliana che sconta il raffronto con due grandi film precedenti del regista romano “Grande Guerra” e “Soliti Ignoti” tradisce qualche problema di composizione.

Ma è un film che merita di essere rivisto nel restauro di Cinema Ritrovato. Merita di essere rivisto oggi per la contemporaneità del capodanno da cui i personaggi – Gioia (Anna Magnani) e Umberto (Totò) con Lello (un giovane Ben Gazzara) – riemergono irredenti e affossati dal destino.

Un film del “chi nasce tondo” che lascia poco spazio al miracolo che ha senso solo nei peplum che interpreta la Magnani da figurante posticcia ma non funziona neppure nella scena finale a Santa Maria della Valle. Ed è rilevante che anche il giorno dei migliori propositi si scontri con una sorte ineffabile e un “destino baro” per dirla con un sorriso.

Il cielo vuoto del cambio d’anno e di Roma lascia ognuno dove sta. Lo muove o lo sposta da qui a lì nella schiavitù del libero arbitrio e del tutto va come è condannato ad andare. La notte 31 dicembre 1 gennaio spesso si carica di aspettative e anche in questi personaggi che sognano un riscatto economico truffaldino (Umberto e soprattutto Lello) o sociale (Umberto e soprattutto Gioia) il passaggio d’anno cela aspirazioni fallaci.

E’ il 1960, inevitabili i raffronti con il contemporaneo – era stato girato qualche mese prima – felliniano “La Dolce Vita”.  Ci sono scene comuni (persino il bagno in Fontana di Trevi, ma senza magia e fascino seduttivo) con premesse ed esiti diversissimi. Qui c’è Moravia con i suoi “racconti romani” riscritti e sceneggiati da Age&Scarpelli e Suso Cecchi D’Amico e lì c’è il genio surreale di Ennio Flaiano. Come dire, da una parte rapporti di classe e psicologia, dall’altra osservazione della società e trasfigurazione.

In fondo Fellini e Monicelli credono in cose diverse. A un’ingenuità bambina che redime, il primo; alla tragica commedia umana e il senso del beffardo il secondo.

“Risate di gioia” ha un suo destino interno di cui leggerete qua e là in giro. L’unica pellicola con Totò e la Magnani sconta molte resistenze e si capisce che la lavorazione non deve essere stata facile per tutti.

La Roma del film è festosa (lo era anche quella della Dolce Vita nella vacuità di un giorno come un altro) ma in maniera più popolare e meno scenografica, giustificata dalla festa comandata. Trionfano la Stazione Termini e via Marsala (alta e bassa). L’EUR del Palazzo dei Congressi – scenario di un veglione insieme al casinò di Anzio – e piazza Esedra (ora Repubblica) luogo di facili appuntamenti. Anche qui Monicelli non cerca magia ma, al contrario, quasi svilisce la carica metafisica dei luoghi. L’emozione dei personaggi li racconta trasformati, senza incantamenti naturali ma viziati e vinti dalle bassezze umane.

In fondo Monicelli ci dice quel che ci fa paura sentirci dire o ricordarci ogni nuovo passaggio d’anno: che nulla cambia per magia o per semplice desiderio. E caricare di aspettative un giorno per quanto simbolico non può automaticamente portare al miracolo anche se lo strilliamo.




Founder e direttore di "Perdersi a Roma" collabora con Il Messaggero, il Venerdì e Nuova Ecologia. Ha pubblicato libri di prose, poesie e narrativa di viaggio tra cui "Letti" (Voland), "AmoRomaPerché" (Electa-Mondadori), "La gioia del vagare senza meta" (Ediciclo), "Fùcino" (Il Sirente), "Il mondo nuovo" (Mimesis), "Andare per Saline" (Il Mulino) e "I segni sull'acqua" (D editore).