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Catilina

Si può morire prima di morire? Si può. La biografia di Catilina (“Catilina. Ritratto di un uomo in rivolta”, Marsilio) scritta da Massimo Fini ci consegna un quadro sfaccettato per non chiuderla lì con un “nemico assoluto” o “il traditore dei traditori” e bona. Un estratto per cui ringraziamo autore ed editore.


Quando Catilina lascia Roma sa che va a morire. E scrive questa lettera a Quinto Lutazio Catulo: «Lucio Catilina a Quinto Catulo. Dà fiducia a questa mia lettera di raccomandazione il tuo grande attaccamento a me, conosciuto per esperienza, tanto utile nelle mie grandi peripezie. Non è quindi mia intenzione fare la difesa del mio nuovo progetto, bensì volli sottoporre a te la giustificazione che a me viene dalla consapevolezza di non essere in colpa e che tu, per tutti gli Dèi, dovrai riconoscere sincera.

Inasprito da ingiustizie e da oltraggi, alla constatazione che, defraudato dei frutti delle mie fatiche e della mia abilità, non posso conseguire il grado conveniente alla mia dignità, mi sono assunto, com’è mio costume, la causa generale dei disgraziati.

Non già che io non possa far fronte ai miei impegni personali con i miei averi – e la liberalità di Orestilla basterebbe con le sue ricchezze e con quelle della figlia a soddisfare i debiti contratti in nome altrui – ma perché vedo uomini indegni nobilitati dalle pubbliche cariche e me escluso da esse per ingiusti sospetti. Per questi motivi tengo dietro alla speranza, ben onorevole nel mio caso, di conservare quel tanto di dignità che mi è stato lasciato.




Vorrei scriverti più a lungo, ma mi giunge notizia che si sta per ricorrere contro di me alla violenza. E ora ti raccomando Orestilla e la affido alla tua leale amicizia. Proteggila da ogni vessazione, te ne prego per i tuoi figlioli. Sta bene».

È questo l’unico documento scritto che possediamo di Catilina. Catulo infatti ne diede lettura in Senato e il testo venne stenografato. Sallustio, che scrive solo vent’anni dopo i fatti e lo riproduce nella sua opera, ne aveva sottomano, come riferisce egli stesso, una copia autentica. E possiamo pensare che in questa lettera Catilina sia sincero. È una sorta di testamento e all’amico
non vuole mentire. Scriverà altre lettere in quei giorni e a tutti dirà, per tentare un depistaggio, che sta partendo per Marsiglia in esilio volontario.

Qui invece svela a Catulo i suoi reali propositi: si accinge alla battaglia decisiva. Da queste poche righe possiamo quindi farci un’idea, sia pur sommaria, del mondo morale di Catilina. Partito da Roma col suo piccolo seguito di giovani prese la via Aurelia, direzione mare, per far credere che andava davvero a Marsiglia. Un manipolo di ribelli, proveniente dall’Etruria, lo raggiunse al Forum Aurelium, a ovest di Tarquinia, per scortarlo. Era diventato troppo pericoloso che viaggiasse da solo.

Il giorno dopo, arrivato a Tarquinia, cambiò bruscamente direzione, piegò verso l’interno, risalì il fiume Marta, costeggiò il lago di Bolsena, riprese la Cassia verso nord e si fermò ad Arezzo dove lo aspettava Caio Flaminio, una delle sue teste di ponte. Ad Arezzo passò alcuni giorni per inquadrare militarmente gli uomini che Flaminio aveva raccolto.




Con questi si diresse verso gli accampamenti di Manlio, il suo fedele luogotenente, nei pressi di Fiesole. Adesso cavalcava preceduto dai fasci littori e dall’Aquila di Mario, simbolo del riscatto popolare.

I fasci littori erano l’insegna ufficiale dei consoli quando assumevano il comando militare. Cera qualcosa di patetico in questa esibizione. Catilina si appropriava del simbolo di ciò che aveva inseguito per tanto tempo e non aveva potuto avere: il consolato, «il grado conveniente alla mia dignità» come aveva scritto all’amico. Il consolato aveva perduto molta della sua importanza e da
tempo finiva in mano a uomini mediocri che lo raggiungevano grazie al denaro e, spesso, alla corruzione. Passeranno pochissimi anni, meno di dieci, e i triumvirati prima, l’Impero poi, toglieranno ai consoli ogni funzione.

Ma, evidentemente, per Catilina quella magistratura, così carica di simbologia e di echi, aveva ancora un senso e un valore. In ogni caso inalberare i fasci littori voleva dire ribellione aperta. Catilina si era ormai tagliato tutti i ponti alle spalle. E infatti quando ne ebbe notizia il Senato, su proposta di Cicerone, lo dichiarò, insieme a Manlio, «nemico della Patria», cosa che comportava la perdita, oltre che di ogni carica e diritto, della cittadinanza romana. Catilina era «wanted», ricercato. C’era licenza di ucciderlo. Per lo Stato romano era un uomo morto.