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Ceccarius

Estraiamo da questo libro su Ceccarius (alias Giuseppe “Peppino” Ceccarelli – nella foto quello in basso a destra -, nato a Roma nel 1889 dove morì nel 1972), l’introduzione (che pubblichiamo, quasi completa, in accordo con l’editore che ringraziamo) scritta dal pronipote Giacomo Ceccarelli. Per molti Ceccarius è un nome che dice tutto. Per altri serve questa introduzione per nulla agiografica anche se si deve a una penna consanguinea e per ciò accalorata e partecipe. E il libro tutto (“Lettere e diari dal fronte e dalla prigionia (1915-1918)”) serve a completare una vicenda anche umana del Nostro. Esce per Iacobelli mettendo insieme le prose della guerra, frutto di un grande lavoro di ricerca archivistica (dei curatori Laura Biancini e Carlo Perucchetti). Un corpus meno noto di lato alla poesia e alla pubblicistica forse a molti note. Come noto è il suo ruolo di fondatore di studi romanisti e romani.





lettere-e-diari
Introduzione
di Giacomo Ceccarelli

Bisogna sforzarsi per ritornare indietro.
Bisogna sforzarsi per immaginare i tempi in cui il Tevere era biondo davvero e le automobili un qualcosa di marziano.
Bisogna sforzarsi per concepire una Roma più vergine, più splendida di quella che oggi sopravvive stanca e appollaiata sui sette colli. Una Roma che quasi per certo, al ricordo del 26 gennaio 1889, si lascerà sfuggire un sorriso leggero. Perché quel giorno d’inverno, nasceva uno dei suoi più devoti e passionali amanti.
Giuseppe “Peppino” Ceccarelli nacque a Roma, appunto, il 26 gennaio 1889. Figlio di Eugenio Ceccarelli, commerciante in generi coloniali, e Clelia Raffaelli, discendente dei famosi mosaicisti romani, Giuseppe passerà alla storia con lo pseudonimo latino Ceccarius.
Dell’infanzia e dell’adolescenza si sa poco. I tanto amati genitori erano proprietari della drogheria Ceccarelli, attività che sorgeva nella scomparsa piazza Montanara, uno squarcio di città cancellato dai lavori per la creazione di via del Teatro Marcello,con una «Romanità allegra e caustica, che riproduceva un cantuccio dei vicini castelli o della più lontana Ciociaria, dove tutto dava l’impressione della buona provincia trapiantata nel bel mezzo di Roma capitale».

Le prime notizie su Ceccarius lo vedono in piazza del Collegio Romano, dal 1904 al 1909, iscritto al liceo classico Ennio Quirino Visconti. Qui,sotto l’antico porticato, tra latino, greco e docenti illustri, conoscerà anche Antonio Baldini e Beniamino De Ritis, personaggi con cui intreccerà una duratura amicizia.
Chi gli è stato vicino durante quel periodo di studi descrive un Giuseppe dal «Carattere acuto e bonario vivacizzato da quel pronto spirito salace che fu quasi il blasone della sua nobiltà romanesca». Ed è proprio qui al Visconti che i prospetti della sua vita iniziano a schiudersi.
Da una parte, comincia a manifestarsi in Giuseppe un animo politico partecipativo, che si traduce nella fervida adesione al Circolo giovanile della Lega navale italiana. Dall’altra, a far da contrappeso al forte sentimento patriottico, conosce Clara Villa, futura moglie e madre ventura della sua primogenita. Lei e Peppino, oltretutto, sono anche vicini di casa – Clara abita a Tor de’ Specchi – e tra i due giovani subito, «a forza di sguardi a poco a poco corrisposti, compresero di aver varcato e oltrepassato i limiti di una reciproca simpatia».

Nel frattempo la storia fa il suo corso, e mentre gli assetti geopolitici mondiali si scaldano, Peppino e Clara convogliano a nozze. Clara rimane incinta, aspetta una bambina.
Tutto sembra procedere per il sacrosanto, giusto verso, finché nel 1913 la cara moglie Clara muore di parto. Il primo grande sgambetto della sorte che lascia Ceccarius scosso nel profondo, perso.
A cospetto di tale disgrazia, impotente, null’altro può fare se non chiamare la figlia col nome della madre morta. Come l’estremo tentativo di cristallizzare un promemoria d’amore. Seguono due anni non facili con Clara appena nata, un futuro scricchiolante, tumulti di piazza ela febbre del nazionalismo che sale. Neanche la drogheria va bene,mal gestita,s’iniziano a inanellare i primi debiti.
In questa delicata situazione, di probabile e sensibile smarrimento personale – in quanto figlio unico, per lui non c’era obbligo –, Ceccarius decide di rispondere Presente! alla dolorosa voce d’Italia che chiama alle armi: «Pochi mesi di vigilia ed eccoci proiettati verso la battaglia in una tremenda alternativa di vita e di morte».
Dopo sommaria preparazione tecnico militare, Giuseppe lascia la figlia Clara alle cure dei genitori e s’arruola volontario. Un Peppino ventiseienne parte per il fronte. È il 1915.
Da qui in poi, si apre una ferita lunga quattro anni.

(…)

A Roma, Eugenio, Clelia e Clara perdono la storica casa di piazza Montanara, il negozio fallisce e i genitori sfrattati vanno a stare ospiti da alcuni parenti. Nel contempo, i contatti con Gabriella e i Petacci si fanno sempre più radi e glaciali: Emilio impone alla sorella di rompere il fidanzamento.
Intanto sulle linee di confine si spara, il fuoco brilla come un’alba perenne, i morti crescono a mucchi.
Ceccarius viene trasferito di battaglione, e si avvicina ancor di più a dove il fronte arde.
Lontani ricordi ormai i capricci di Clara, i sospiri di Gabriella, le benedizioni di papà e mammà.
Lì, i soli rumori nelle viscere delle trincee sono le urla rauche di madre guerra, «su nel cielo un ronzio continuo e talvolta un tic-tac di mitragliatrici attrae la mia attenzione verso brevi lotte aeree […] Lotte che non conoscevo […] e il cannone con tutte le sue voci tuona a intervalli, empie di echi rumorosi le vallate e raggiunge le linee che attendono» (lettera del 12 agosto 1917).«Qualche colpo sparato da qualche vedetta mette talvolta l’allarme su tutta la linea, e allora non si vedono che razzi di tutti i colori e ci si vede più che di giorno, e crepita la fucileria, le mitragliatrici rullano e l’artiglieria e le bombe a mano accompagnano l’orchestra» (lettera del 19 settembre 1917).
Le condizioni di Ceccarius e dei suoi compagni peggiorano, il conflitto che impazza è di portata immensa, inconcepibile. Frotte e frotte di uomini falciati in battaglia. Uno per uno, arricchiscono con la propria vita, il bottino di sangue della guerra infame.
Peppino si ritrova nell’occhio del ciclone, abbandonato a se stesso, lotta disperato. Lui e gli altri sono sempre più insulsi soldati, sempre più bestie tra le bestie: «Oltre a noi tre, alloggiano nella baracchetta vari tipi di sorci delle più diverse grandezze e ancora ho in me la strana sensazione di una passeggiatina sul mio viso da uno di tali animali compiuto stanotte. Ma a tutto necessita adattarsi» (lettera del 14 agosto 1917). «Fa un caldo soffocante, il giorno le mosche e la notte i sorci e le sorche sono fastidiosissimi» (lettera del 16 agosto 1917).«Una cagna, di ottima razza, mi è stata offerta, trovata sperduta in un campo» (lettera del 9 settembre 1917).

(…)

I giochi sono fatti, la storia ha scelto. Ceccarius viene fatto prigioniero. insieme a lui, migliaia di migliaia. Lunghe file di anime incolonnate.
Caricati in treno sui carri per animali e trattati come tali, Giuseppe e i suoi compagni vengono deportati verso due anni di detenzione nei terribili lager tedeschi di Crossen prima, di Celle poi. Orribili luoghi in cui Ceccarius conoscerà tra gli altri, Carlo Emilio Gadda e Bonaventura Tecchi.
La Germania è la nuova casa. Muri e filo spinato, futuri parenti.
Prima di entrare nel campo di Crossen, prima di perdere la sua libertà, attraversando quella città straniera da prigioniero, giuseppe si guarda intorno e pensa, «si accende qualche lume, qualche viso di donna si intravede, che sensazioni proverà quella madre o quella sposa al nostro triste passare» (diario, 10 novembre 1917).
Per un periodo cessano le lettere. La famiglia Ceccarelli non sa neanche se il figlio sia vivo o morto.
La prigionia è degenerante, un incubo.
Lo spietato inverno del nord incalza prepotente, i soldati tedeschi strillano ordini in una lingua che nessuno capisce, i compagni iniziano a cadere come inutili moscerini, malattie. tifo e colera alloggiano nelle brande accanto. zero rispetto per i morti. al funerale di un diciannovenne crepato di polmonite, un tedesco, «ha fumato sempre durante la cerimonia» (diario, 21 novembre 1917).
Una vita da sconfitti, braccati dalle atrocità, dove il male ha un volto nuovo ogni secondo e non finisce mai.
L’Aspirante Ceccarius e gli altri sono rinchiusi al gelo con pochi miseri stracci addosso, soggiogati dal nemico, dalla tortuosa trafila di stenti. Ma soprattutto, dall’umiliazione, quel particolare, appiccicoso lerciume che non si può lavare via.




Triste giornata oggi. il trattamento che viene fatto, anche se scusato dal lato igienico, è assolutamente barbaro. Siamo a gruppi di cinquanta mandati in una baracca, siamo fatti spogliare, le uniformi e la biancheria (triste impressione dei miei panni sudici e rotti) attaccati a degli uncini, le scarpe e gli oggetti di valore da un’altra parte. Poi un francese ci cosparge con una sostanza depilatoria le ascelle e le parti virili, ed in breve tutto il pelo cade a terra! Un barbiere russo ci rade la testa! e così nudi, al freddo, siamo mandati in un camerino ove ci è data una mastella d’acqua tiepida per toglierci la sostanza che era stata gettata (diario, 11 novembre 1917).

Altro che 700 grammi di pane al giorno, altro che 250. altro che lagne per il baccalà d’estate!
Qui gli unici amici veri sono la fame, il freddo e le ciglia languide della morte.
A venti gradi sotto zero, Ceccarius mangia solamente immondi brodi di foca, schifosi semolini freddi, fave, rape, lupini, miglio. Qualche patata. Lo stomaco è sempre vuoto. Le pagnotte sono rarissimi spettri. il calendario dice che è natale, ma il menù prevede, «una sboba di pesce ammoniacato. Qualcosa di veramente disgustoso» (diario, 25 dicembre 1917).

I padrenostri, le avemarie, e i ricordi del clima italiano non bastano a lenire le piaghe del freddo. il gelo e la neve seppelliscono tutto quanto, «bella giornata, ma è un surrogato di sole, che illumina, ma non riscalda! Rimembranze dolcissime del nostro bel cielo» (diario, 26 novembre 1917).«nottata di vento! Sono dovuto scendere dal mio giaciglio, la notte era buia, ma il vento ululava terribilmente, sembrava una conversazione tra due giganti» (diario, 14 dicembre 1917).
Per fortuna giuseppe sopravvive, fra alti e bassi la salute lo assiste, eppure le giornate risultano insopportabili lo stesso, infinite, stupide.
Così Ceccarius si barrica negli unici rifugi che gli rimangono a portata. Nei libri e nella nostalgia della sua città.
Ed è forse proprio grazie a questa malinconia, a questi studi, a questa distanza, a questo desiderio di rivederla, la sua Roma, che ha scelto poi di dedicarle una vita intera. «La tristezza di questo cielo grigio […], è come una cappa plumbea che avvolge la mia vita d’esilio,che monotona si volge tesa col pensiero e coll’anima alla patria lontana, alla città bella che è il mio sogno, ancor più dolce perché in essa voi vivete, perché in essa voi mi attendete. e con lo strazio dell’impossibile, io penso a voi (lettera del 18 agosto 1918). «Già incominciano le nebbie, e in questi giorni Roma splende del suo bel sole nell’azzurro che arride i miei sogni e le mie speranze» (lettera del 14 ottobre 1918).

Sulla brandina di paglia, Ceccarius legge Balzac, Stendhal, molti volumi sulla capitale. È il sorgere e allo stesso tempo il maturare di una passione vorticosa.
Tra le altre cose, si mette a scrivere poesie in romanesco che riscuotono un certo successo fra i compagni di sventura.
Sono versi leggeri, ammirevoli e nobili per un contesto del genere. Divertenti.
E sì, perché nella vita di Peppino, Roma non è l’unica donna, ce n’è stata un’altra: all’anagrafe, Ironia.
Smontati pezzetto per pezzetto dalla fame, Peppino ha il coraggio di comporre liriche di questo tenore,

Quanno che io ho potuto scrive a casa
me so riccommannato
perché m’avessero mannato
un po’ de robba pe’ sarvà la fame
pane, cacio, polenta, der salame.

E so sessanta giorni ch’ho aspettato
annanno in giro benché fussi fiacco
pe’ sape’ si mai fusse arrivato
er sospirato er benedetto pacco.

E l’aspettavo come regazzino
aspettavo che a notte la befana
scennesse abbasso in fonno der camino
p’attaccà li regali ar pedalino.

Ma ieri finalmente m’hanno detto
ch’er pacco era rivato, che piacere
me so sentito n’antro pell’effetto:
ormai potrò magnà! saluto er bere!

Ma quanno ho aperto er pacco ciò trovato
camicie, maje, carze, fazzoletti
fasce de lana, un pacco d’impiccetti
e corvatte e mutanne! Rovinato!

Mamma ha pensato pelli raffreddori
e m’ha sarvato contro li dolori,
e io coperto de tutta sta robba
seguito a fa diggiuno e a divorà la sbobba.
(diario, 22 gennaio 1918)

Nel momento in cui si viene spogliati di tutto, nel momento in cui la violenza perde il suo significato perché ovunque, l’arma più potente è saper sorridere. Riuscire a contrastare la magrezza del corpo con delle grasse lardose risate. e Ceccarius, non c’è cannone o prigionia che tenga, mai ha lasciato il suo sarcasmo senza munizioni.

Allora, quando un prigioniero pittore di Crossen, Carlo Prada, gli fa un ritratto a matita, Peppino annota: «Ho posato per un paio d’ore. È venuto bene […], l’ho chiamato Morte civile» (diario, 3 dicembre 1917). Oppure definisce il tenente Sessa del 75° fanteria, «milanese ma simpatico giovane»(lettera del 23 settembre 1917) e un suo commilitone sotto in grado, «il tipo più strano è il mio attendente: per me è un vero cagnolino, ma c’è una cosa straordinaria! non lo capisco quando parla il suo dialetto barbaro (è di Rovigo, ma ha un dialetto più romagnolo che veneto). Ci comprendiamo a gesti! tutti ci ridono: ma io ne ne sono contento, perché è un brav’uomo» (lettera del 3 ottobre 1917).




E quando viene a scoprire la ragione per la quale Gabriella ha praticamente smesso di scrivergli – un fantomatico mal di gola – riconosce il fascino irrazionale di quella scusa (lettera del 29 settembre 1917).
Va detto, aspetto quantomeno strano da immaginare al giorno d’oggi, che in quei terribili lager la cultura non veniva del tutto decapitata. ai detenuti era permesso organizzare conferenze di vario tipo, e qualche volta assistere ad alcuni concerti. Così tra Ceccarius e gli altri sventurati si discorre tranquillamente di Nietzsche, Carducci, Dostoevskij, D’annunzio,e si va a sentire il Coriolano di Beethoven o l’Ave Verum di Gounod. Niente sotto ai denti, ma la testa quasi sazia, surreale compromesso.
I mesi passano, le stagioni con loro, il tempo scivola via, le condizioni mutano e Peppino, nella lontana, ghiacciata Germania, a furia di lettere, assiste da spettatore alle vicende della famiglia.
La figlia Claretta cresce, inizia a leggere, i genitori lasciano l’ospitalità dei parenti e trovano una casa nuova, il volto di mamma Clelia, nello scambio di foto, invecchia piano piano e Peppino lo trova sciupato.

La guerra volge lenta alla fine, ma dentro al campo, i dolori non scompaiono, la forza di volontà viene meno ogni ora che arranca, neanche le preghiere aiutano molto. Lo si capisce bene dai diarie dallel ettere, che verso la fine, si fanno di tono più telegrafico, scarno, come se ogni briciolo d’energia fosse uno scrigno di lingotti da custodire con gelosia. Da risparmiare.
Tra i prigionieri, le speranze e le notizie della pace imminente diventano il solo argomento di conversazione. Si pensa solo a quello. L’unica ragione per continuare a soffrire. L’unico unguento per placare il dolore.
E finalmente, il 4 novembre del 1918, un bollettino ufficiale, firmato dal “Duca della vittoria” il generale armando Diaz, recita:«i resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli,che avevano disceso con orgogliosa sicurezza»(Bollettino della Vittoria, 4 novembre 1918). il mostro, una Germania boccheggiante allo stremo, firma l’armistizio.
La prima guerra mondiale è giunta al termine, si chiude un’era.
Sui monti, sulle colline, sulle pianure, sulle coste e nei cumuli di macerie, rimangono incrostati diciotto milioni di morti. Più di venti milioni, i mutilati e gli invalidi. Fuori dalle città, i cimiteri spuntano imitando ciuffi d’erba, non sembrano mai abbastanza.
Peppino è di nuovo libero e il 20 novembre 1918 dice addio alla prigionia, con la mano affaticata, chiude questa tragica parentesi. Si va a casa.
Alle spalle abbandona neri fantasmi, tormenti indicibili di cui raramente e mal volentieri, nel corso della vita, parlerà.
Ceccarius ritorna a Roma, la sua vera Patria.

Termina così il periodo più misterioso della vita di Ceccarius. il resto della biografia di questo grande studioso è noto alle cronache.
Una volta giunto a Roma, per far fronte alle difficoltà economiche, nel 1919, trova impiego prima presso il governatorato,e poi all’Ilva, società dove intraprenderà una lunga e brillante carriera fino al 1963. nel frattempo, Ceccarius si innamora di nuovo e si risposa (1921) con Lavinia Mengarelli, sorella di un militare conosciuto in guerra e donna che gli darà altri due figli, Francesca Romana e Luigi.
All’Ilva, Ceccarius diviene presto direttore centrale dell’ufficio di rappresentanza nella capitale, e più tardi assumerà anche l’incarico di consulente per il settore della Stampa aziendale. Come membro del comitato di redazione, si occupa della rivista Noi dell’Ilva, che diventerà poi Rivista Italsider. Qui, molto favorisce le collaborazioni con intellettuali del tutto estranei all’ambiente – per esempio il vecchio amico romanista Antonio Baldini. Sempre per l’Ilva, nel 1926, non si nega una sortita nel mondo del cinematografo. in collaborazione con l’operatore Eugenio Fontana, dirige come regista Col ferro e col fuoco, prima esperienza italiana di documentario industriale.

Da una parte l’ilva, quindi, ma dall’altra, figura assai più ingombrante e fascinosa, Roma.
Infatti già dal 1919 Ceccarius inizia un’attività di pubblicista volta sostanzialmente a Roma e ai suoi caleidoscopici aspetti storici, artistici, archeologici e culturali. Nel corso della vita firmerà più di duemila articoli su riviste come Idea nazionale, LaTribuna, IlTempo, Illustrazione italiana, Nuova Antologia, Illustrazione vaticana, Almanacco dei bibliotecari, e altre ancora.
È tra fra i promotori dei “Romani della Cisterna”, da cui nasce poi il gruppo dei “Romanisti” e di cui diventerà presidente nel 1951. Obiettivo comune, divulgare il culto e la storia di Roma nei suoi più vari caratteri. al circolo aderiscono nomi illustri come Augusto Jandolo, Federico Mastrigli, Antonio Muñoz, Gustavo Giovannoni, Mario Dell’Arco, Luigi Zanazzo, Silvio D’Amico, Ugo Ojetti e Pietro Paolo Trompeo.
Ovviamente, in primissima fila, spiccano Ettore Petrolini e l’amico Ttrilussa, che in un autografo regala la seguente semplice, significativa lirica a Ceccarius, il quale la userà, lasciandola in bella vista sul suo tavolo, per scoraggiare chiunque fosse di mano un poco lesta:

Se trovi un libro sulla scrivania
puoi leggerlo e studiarlo fin che vuoi
ma mi secca moltissimo se poi
lo metti in tasca e te lo porti via.

Una quartina scaccialadri che sempre troneggerà sullo scrittoio di Ceccarius, affiancata da due particolari fermacarte, emblemi intrisi di un passato in uniforme: un moncone di filo spinato e un frammento di granata esplosa.




Intanto la storia va avanti e nel ’22 Ceccarius partecipa fisicamente alla marcia su Roma con indosso la camicia azzurra del Partito nazionalista, schieramento di cui diventa consigliere e deputato provinciale(1920 – 1923). e proprio durante questi anni in cui certe differenze erano sempre meno tollerate, si apre il suo rapporto con il Fascismo. Un rapporto insolito, di matrice non tanto politica, quanto piuttosto culturale. Ceccarius aderisce al Partito nazionale Fascista nel 1923; subito inizia a scrivere su Roma fascista, diretta e fondata dall’amico Guglielmotti, su Idea Nazionale, poi su Capitolium (1926) e su Nuova Antologia (1928); nel ’25 diventa Vicefederale nel Direttorio della Federazione romana e promuove la Biblioteca provinciale; dal ’26 al ’27 viene nominato membro della Commissione di revisione nella Corte di disciplina, con il compito di selezionare e talora espellere gli iscritti al fascio romano; nel ’27 organizza, assieme ai pittori Orazio Amato e Antonio Barrera, la mostra del Costume romano e del Lazio a Palazzo Valentini, e in seguito si occupa del trasferimento della Federazione a Palazzo Braschi; nel ’29 con l’aiuto del governatore di Roma Boncompagni Ludovisi, fonda il museo di Roma e nel 1930 gli viene affidata addirittura l’organizzazione della sfilata dei Costumi regionali per le nozze del Principe Umberto.
Ecco, il suo è un percorso politico particolare,certamente molto lontano da implicazioni hitleriane o antirazziali, e che tende invece a intersecarsi con il gotha dell’intellighenzia fascista. Un’adesione convinta sì, ma volta in prevalenza a quell’ideale mitico e sacrale di Roma. a quella visione fascista che inneggiava al culto di un’intramontabile romanità imperiale. a quel “dovere di sentire l’ineffabile orgoglio di essere un gregario di questa immensa e superba capitale”, per parlare con la retorica di Mussolini (discorso pronunciato al Congresso Fascista, all’augusteo, il 21 giugno 1925). Ebbene, per l’ennesima volta, si avverte come sia stato ancora l’amore per Roma, il vero, forse l’unico, filo rosso da seguire nella vita di Ceccarius.

Sempre nel 1925 entra a far parte dell’Istituto di studi romani, fondato dal direttore della rivista Roma Carlo Galassi Paluzzi. Fino al 1944 ne è membro della giunta direttiva, nel 1952 viene nominato membro ordinario, e dal 1961 al 1970 consigliere dell’organo direttivo.
Insieme con Emma Amadei e con Antonio Muñoz fonda la rivista L’Urbe (1936), della quale diventa direttore nel 1960.
È autore poi di importanti pubblicazioni come La spina dei Borghi (1938), sulla storia urbanistica del rione Borgo, Strada Giulia (1940), sull’omonima via, e dei saggi riguardanti alcune famiglie romane: I Sacchetti (1946), I Braschi (1949), I Massimo (1954).
Fin dal secondo numero di Studi romani, nel 1941, in appendice alla Strenna dei Romanisti, Ceccarius tiene la rubrica “Segnalazioni bibliografiche romane”, che è il principio della sua fondamentale, vastissima e puntigliosa Bibliografia Romana. La rassegna di tutto ciò che in Italia e all’estero veniva pubblicato su Roma, in dodici libri, dal 1946 al 1957.

Un materiale di enorme varietà, che assieme ai quattromila volumi di autori italiani e stranieri di soggetto romano, ai cinquemila opuscoli, ai più di centomila ritagli di giornali, alle collezioni di centinaia di periodici, e alle milleecinquecento fotografie, costituisce, per volere del figlio Luigi, il Fondo Ceccarius della Biblioteca nazionale Centrale di Roma, dal 1972.
Fra le altre cariche ricoperte da Ceccarius ricordiamo: accademico cultore dell’Accademia nazionale di san Luca, della Pontificia Accademia dei virtuosi del Pantheon, presidente del Comitato romano del Regio istituto per la storia del Risorgimento, socio della Società romana di storia patria, membro del Consiglio nazionale delle corporazioni, consigliere dell’Oratorio Filippino, socio della Romana accademia degli arcadi (con il nome di Ostilio Cisseio), e membro del Consiglio direttivo della stampa romana.
Nel 1965, riceve il premio “Cultori di Roma”.
A lui è intitolato il viale di ghiaia alberato, nei giardini della Mole Adriana, accanto al lato ovest di Castel Sant’Angelo.
Manca solo l’ultimo capitolo.

L’atto dell’annullamento che sgretola il corpo e la mente. Quel momento che a tutti appartiene.
Giuseppe “Peppino” Ceccarelli lascia per sempre la sua città il 17 febbraio 1972.
Muore nella sua casa dell’Aventino, crocevia di tanti pensatori.
Sepolto al Pincetto del Verano, sorveglia.
All’inizio e alla fine, Roma.

«A notte un riflettore spegne il cielo».
Diario, 2 marzo 1918.