flânerie e viaggetti

Cerca un altrove

Valeria De Luca, pescarere, vive a Roma. Il suo ultimo romanzo è “Respira” (Ianieri Edizioni, 2014). Filippo La Porta, nel presentarlo, ha scritto di “una discesa negli inferi” e, citando l’autrice, della “primavera romana con le mura che grondavano di glicini”. Questo racconto ci fa vedere attraverso il suo sguardo accurato i Parioli con le sue ambasciate e luoghi di (non) incontro.




 

C’è una ragazza sotto i portici del bar Euclide, un’adolescente. Porta un trucco leggero, i capelli sciolti al naturale ma con dei luccichini nel mezzo, fermagli colorati e fili che pendono a decorazione, vezzi per un verso infantili. Un jeans aderente sulla struttura sottile, e aderente pure la giacca e tutto il resto, come se nell’onda della vita quel corpo si reggesse in equilibrio sulla risacca.




Un gioco a sottrarre, un’essenzialità maestra, fa stridore col lusso dei particolari. Eppure sento che anche questo lusso è legato all’essenzialità e alla magrezza. Mi ricorda i corpi cresciuti coi freddi del nord dell’Europa, siamo lontani dall’esuberanza di materia del Mediterraneo. Gli occhi girano per un po’. L’immagine si replica, non è una ragazza, ne sono almeno una dozzina. Allora dovrei dire che mi trovo nel pieno della contemporaneità, e finirla così. Dovrei dire che in tutte le città, italiane e non, europee ma non solo; e in tutti o alcuni dei quartieri di queste città, di un Occidente che lambisce persino talune strade di Beirut, ecco; dovrei dire che appaiono così, la giovinezza, e la bellezza. Corpi simili da monete uniche, ad onta delle distanze geografiche. Corpi sovrabbondanti di dettagli, eppure indecisi nel carattere dominante. Una grazia confusa, o sospesa.

1950-1

Ma direi poco. Perché quello che mi incuriosisce è proprio un fatto: che la bellezza non accade, qui, come in tutti i quartieri e le città che ho detto, e non sto a ripetermi. Cioè non è uno dei modi di una medesima sostanza e basta, no. Qui, in questo quartiere, tutti gli altri modi del lusso, delle altre città, in qualche senso sono presenti. Grazie a una specie di codice: di virtualità. Mi spiego: io l’ho vista, quella ragazza, mentre scendeva da un palazzo a pochi metri dal bar. Certo. L’ho sentita che parlava in maniera concitata, tanti movimenti sulle mani come si conviene a un’adolescente. Mentre pronunciava con l’accento romano, mica no, gli idiomi inglesi imparati nelle vacanze studio, e di romano aveva persino una ruvidezza di troppo. Eppure, quella stessa ragazza aveva anche un altrove nel sottocutaneo. Ben inteso, non solo l’altrove che danno i mezzi di comunicazione, il tasso di meticcio che le nuove generazioni assorbono via cavo. No. L’aria di altrove di cui parlo è onnipresente da queste parti.




Sbatto con la memoria sulla facciata dei palazzi delle ambasciate, e dei consolati. Tanti. Che portano sulle strade che percorro un primo tipo di altrove: l’ “estero”. L’estero qui non è la vita dei paesi che quelle stesse ambasciate vengono a rappresentare. L’estero è una realtà unitaria ed astratta.

Non che neghi certe differenze, e non mi accorga, solo dal limitare, dall’imponenza o misura delle curve dei palazzi, che tipo di vite si muovano, all’origine. Il fregio della porta in legno della sede kuwaitiana, o il volto della guardia che la presenzia, sono già una pista, avventurosa. Ma dico altro. Dico che tutte quelle sedi di angoli disparati di mondo non mi portano quegli angoli di mondo, quanto piuttosto il linguaggio, “interpretante”, che si parla nelle sedi di rappresentanza.




Io ho, in questo quartiere, il linguaggio della ragion di stato. E basta! Al posto del materiale, grezzo, che qualsiasi esploratore sceglierebbe di osservare, mi ritrovo tra le mani una materia straniera lavorata. Tanto da essere ridotta a qualcosa di irriconoscibile nella sua individualità. Una traduzione logica e storicizzata della vita. Non pezzi di mondo, ma il Mondo, unico e categorizzato. Ecco il primo livello di virtualità.

Dai palazzi pubblici sbando, verso le residenze. E per capire che residenze siano, senza nemmeno conoscere il piano di urbanizzazione del primo Novecento, mi basta anche qui fermarmi sulla soglia. Perché in questi palazzi ci sono i portierati, che sono dentro degli ingressi-salotto, boscosi per gli alberi che li arredano, paiono gli ingressi dei grattacieli di Rio de Janeiro. Opulenza dei sud del mondo. Alcuni dei portieri sono ancora italiani, la maggior parte extracomunitari, dell’est europeo per lo più, e se non sono gli unici extracomunitari che si vedono nel quartiere ci siamo quasi. Tolto il personale che lavora in casa, soprattutto Filippini, che la sera risalgono la collina dei Parioli, col 52 lungo via Monte Parioli, e da quel bus che è quasi un taxi sgusciano ordinati e con classe, uno a uno o a frotte, nel buio.

Questa danza che pare una geometria, e questa selezione sociale che è anch’essa una geometria perfetta, dà conto di un’ulteriore virtualità: l’appartenenza sociale. Una trasversalità più larga del quartiere, tanto da inserirmi in una comunità elettiva amplissima, che niente ha a che fare con quel fazzoletto di Roma. È oltre l’apparenza di territorialità, il vero quartiere. Frutto di un’idea e di una storia del mondo, tenace, guerriera. Ma anche dolce, a tratti, quando spunta nelle camminate di un’anziana signora che, al tramonto, si allunga sino alla chiesa, l’abito inamidato, orecchini preziosi. Cura rispettosa e desueta quanto alcune specie di piante che qui, in questo quartiere, sono rimaste, ai bordi dei muretti: il plumbago, ad esempio. Lilla, e setoso, come il vestito dell’anziana signora.




La successione delle residenze è rotta e moltiplicata dai riflessi delle vetrate degli alberghi. Alberghi-lusso, e diversamente dal lusso, frequenti. Tanto da ricordarmi con insistenza l’importanza dei passaggi, nella vita. Un nomadismo di fondo. Il trasmigrare continuo di questa contemporaneità e l’incapacità di fermarsi. Sono proiettata nuovamente sulle orme di un altrove, ma è un altrove che sfugge perennemente, che inseguendolo cambia volto. Questo quartiere sovverte il concetto stesso di radici. Ho di nuovo a che fare con una virtualità. Che non viene contestata neanche dai ristoranti che si succedono tra un albergo e un altro, eppure ce ne sono di stranieri, e di regionali, assai pochi romani, ma le porte dei ristoranti restano chiuse, gli odori non passano. La segretezza dell’olfatto è forma altissima di privatezza.

Sono stanca. Tiro il fiato. Respiro. L’aria profuma di linfa e basta, mi piace. Il silenzio mi avvolge. Per le strade curve della parte alta passano poche automobili. Le piazze sono rare, e lontane. A volte si ha quasi l’impressione di essere in una località di villeggiatura, il supermarket suggerisce l’umore vacanziero del bazar: c’è tutto, ma non il tutto massificato delle metropoli, una sovrabbondanza distillata, da colonizzatori. Il consumatore è al sicuro, è rilassato. E, rilassata anch’io, spingo gli occhi su per i tronchi dei pini. Fitti. Hanno strutture strane, esili e sempre biforcantesi come un dilemma morale. Li vedo bene stando sul marciapiede, ma mi riuscirebbe anche se fossi dentro casa. Perché, accanto ai villini antichi, icone di nobiltà passata, ci sono i palazzi degli architetti degli anni settanta, che hanno finestre grandi, enormi per dei condomini. Occhi enormi sulle strade. Non fa paura, vedere tanto? Verrebbe da chiederselo, se non si conoscesse queste strade. Ma nulla hanno da temere, questi occhi allargati, nessuna aggressione può venire da fuori. Come in un disegno in pianta, le strade-giardino prolungano in omogeneità l’armonia dell’interno. Ne sono l’appendice. Sono strade virtuali. Sono il fuori della ragione.
A questo punto anche gli ultimi lembi di territorialità svaniscono. Per incantesimo perdo il senso del tatto. Eppure la mole dei palazzi fascisti che sono al fondo delle curve percorse dovrebbe rinvigorirlo, ma è un’imponenza che svapora. Il fatto è che non ho più scusanti: perché dentro Roma e per caso, senza saperlo ho trovato una milanesità. Era quello che volevo per schivare Roma. Era quello che volevo, inconsciamente, per non mischiarmi con questa città. Questo quartiere protegge un individualismo transnazionale. È una teoria filosofica.
Così, ritorno al bar Euclide. Non c’è più, in bella vista, l’alta dirigenza d’inizio secolo scorso, o almeno si nasconde nelle salette più interne. Forse continua a nascondersi pure, al piano di sopra, qualche esponente del cinema, sull’inerzia degli anni cinquanta. Ma di sicuro c’è ancora quella ragazza. Pare che in prima linea siano rimasti solamente i giovanissimi, gracili, esposti. Continua a gesticolare con le braccia a farfalla. Cerca un altrove. Mi somiglia.

 

Ringraziamo l’Euclide per la autorizzazione alla pubblicazione delle immagini d’epoca del bar inaugurato a Piazza Euclide il 1° marzo 1950.