flânerie e viaggetti

Il Tasso, il liceo

Il Tasso, il liceo di Roma considerato l’avamposto di chi deve farcela. E alla grande.




Nella città eterna le lezioni non finiscono mai. Anche i lavori pubblici sono eterni. Ci sono professori che insegnano il greco e il latino da quando queste lingue sono state inventate. Ci sono operai che rattoppano le Mura Aureliane del III secolo o le guardano sbriciolarsi scuotendo la testa, come si scuote la testa davanti a una strada riasfaltata l’altro ieri e oggi già rovinata pensando: “Ma chi l’ha fatto ’sto lavoro?”. Nella città eterna tutto è consumato, rattoppato, puntellato, abusivo, tutto è corrotto, tutto già visto, la tragedia è diventata commedia e la commedia è già finita, ma nessuno ha imparato la lezione.

I professori spiegano l’aoristo greco e la consecutio temporum da prima che nascesse Giulio Cesare e gli studenti ancora non li capiscono. Anzi, più passa il tempo e più queste lingue diventano incomprensibili. Pure il professore non le sa più come una volta, perché la mamma non gliele insegna più quando è nella culla, mentre gli dà il latte: il professore le impara a scuola, da un professore che le ha imparate a scuola pure lui. Così nella città eterna la maggior parte degli studenti ha smesso di provarci e impara altre lingue, altre cose, altre vie per ingannare il tempo. Qualcuno invece s’intestardisce a studiare latino e greco, come se volesse vedere dove andava a parare la lezione di quei professori che ventitré secoli fa, nella città eterna, cominciarono a insegnare il greco e il latino agli studenti, anche ai meno dotati.

Così, per esempio, se sei a piazza Fiume, con le spalle al palazzo della Rinascente, e aspetti che il semaforo ti lasci passare, verso le otto di mattina, vedi intorno a te decine di ragazze e ragazzi che fanno quello che fai tu. E mentre aspettano, parlano tra di loro, o ascoltano la musica con gli auricolari, o addirittura ripassano la lezione, che forse non hanno capito. Poi ragazze e ragazzi, in ordine sparso, attraversano corso d’Italia e vanno verso via Sicilia, dove sorge il palazzo del liceo “Torquato Tasso”, che è una scuola costruita più di cent’anni fa dove si cerca ancora di imparare il greco e il latino.

Il Tasso è un edificio imponente, quasi maestoso, come si poteva costruire all’inizio del Novecento, con un ingresso monumentale, la lapide in marmo dedicata al primo preside, Venerio Orlandi, che si affaccia sulla prima scalinata e che oggi non attira l’attenzione di nessuno. Domani, dietro il ritratto ovale del preside, potrebbero nascondere una telecamera di sicurezza, per filmare chi entra e chi esce: nessuno se ne accorgerebbe. La scalinata interna è ancora più imponente di quella dell’ingresso. Possiamo immaginare l’atmosfera che aleggiava il giorno dell’inaugurazione, nel 1908: orgoglio per il grandioso passato, speranza per il futuro, qualche malumore sordo e quasi fuori luogo per il grosso numero degli emigranti e per il magro bottino delle guerre coloniali, soddisfazione per la magnificenza dell’atrio e dell’aula magna.

Magnificenza, sì. Nel vano incorniciato dalle scale del liceo Tasso ci si potrebbe infilare un’astronave intergalattica. E forse un giorno qualcuno lo farà. Partirà una spedizione che attraverserà la Via Lattea e supererà Alpha Centauri, per annunciare all’universo intero che finalmente nella città eterna il greco e il latino sono stati imparati come si deve e perciò non c’è più bisogno di studiarli. Proclameremo soddisfatti che è superfluo insegnare “Conosci te stesso!” perché tutti ci conosciamo alla perfezione, o raccomandare “Niente di troppo!”, perché siamo equilibratissimi e le colpe dei padri non ricadono più sui figli, perché ormai i padri sono tutti senza colpa.
Ma non è ancora arrivato il momento.

I ragazzi si impegnano, certo, ci provano con tutte le forze, e se pensano che sfidare i secoli sia un’impresa troppo ardua, che ci voglia troppa dedizione, troppo denaro, troppo sostegno di parenti e amici, al Tasso neanche si iscrivono. Però se, poniamo il caso, tu sei uno studente del liceo e io un professore, be’ allora devo dirti che ancora non fai abbastanza. L’incoronazione di Tiberio, la chioma di Berenice, la morte di Socrate ancora non le sai leggere. Non parliamo poi di scriverle. Leggi qualcosa tradotto in italiano, in inglese, sul computer, sul telefono portatile, collegato alla rete in fibra, che però oggi non funziona, lo schermo del telefono ti si è spaccato, la memoria del computer è quasi esaurita e tutto sembra andare a pezzi.

Anche le mura del liceo Tasso vengono giù e, da aprile scorso, tutto intorno l’edificio corre un ponteggio altissimo che dovrebbe favorire i lavori di restauro, ma in nove mesi è servito solo a impacchettare la struttura e nasconderla ai passanti. Così adesso la scuola sta in una via Sicilia che va da piazza Fiume a via Veneto, come fosse in mezzo a due simboli. Venendo dalla piazza si passa davanti alla Direzione Antimafia e alla Guardia di Finanza, mentre da via Veneto si passa accanto al Café de Paris, chiuso e sbarrato perché lo aveva comperato la mafia con quel trucco finanziario che si chiama “lavaggio del denaro sporco”. Via Sicilia ha da un lato le sedi dei “buoni” e dall’altro un simbolo che una volta significava “Dolce Vita” e oggi significa “malavita”. In mezzo, molto vicino ai “buoni”, c’è il Liceo Tasso, nascosto alla vista da un ponteggio che già comincia a dare segni di decadenza e prima di favorire il restauro deve essere restaurato lui.

Dentro, nelle austere aule, alcune delle quali addirittura anguste, esattamente l’opposto dello spazioso ingresso e della scala monumentale, gli studenti si affannano a studiare il greco e il latino in una corsa contro il tempo, sempre più eroica e solitaria, sempre più nobile e ridicola, mentre le voci di Platone e di Seneca si allontanano come stelle che si perdono nella polvere periferica dell’universo.

Nel crollo della città, anche i professori vacillano e tra le mura del Tasso il greco e il latino si apprendono in mezzo a sospiri affranti, a teste scosse e crisi di nervi che si riverberano su chi insegna tutte le altre materie, sui bidelli, i segretari e addirittura sui tecnici delle macchinette del caffè.
Però se, poniamo il caso, tu sei un professore del magnifico liceo e io uno studente, be’ allora devo dirti che se tu senti di non riuscire a fare abbastanza, se sei stanco di essere considerato una vox clamantis in deserto, un carro da rottamare, se i miei compagni sono distratti, se i governanti lo sono molto di più, io invece ho ancora voglia di imparare. E se la campanella non suona, non è perché è rotta, ma perché nella città eterna le lezioni non finiscono mai. Anche se questo fosse vero soltanto per uno, soltanto per me.

Le canzoni di aka Giuseppe Dolce, cantautore romano, sono ispirate a quello che succede nella vita, a Paolo Conte, a Tom Waits, a Enzo Jannacci, alle canzoni italiane dimenticate, ai blues indimenticabili e alle melodie nascoste tra le corde della chitarra.