flânerie e viaggetti

Il vero e il falso dei luoghi

Il racconto di luogo sollecita la percezione del vero e del falso. Ne parliamo a partire da due libri (Nooteboom e Rapino) e un film (di Anderson).

Raccontare i luoghi è una delle qualità più pregevoli della letteratura e del cinema. Una speciale magia, reale o immaginaria che sia, di cui è dotato il Grande Racconto, anche quello solo funzionalmente giornalistico o ricostruito negli studios. Perché un luogo vero che finisce in un romanzo o in una pellicola perde un po’ di realtà così come un luogo immaginario finisce per acquistarla.

È il caso, ad esempio, della cittadina francese di Ennui-sur-Blasé, in cui si svolgono le vicende di “The French Dispatch” (omaggio al racconto della rivista “The New Yorker” e alla fantasmagoria del cinema francese della Nouvelle Vague) di Wes Anderson. Cast stellare a parte, il luogo in cui viene ambientato il racconto per racconti letterargiornalistici longform di Anderson acquista una sua soggiogante autorevolezza, anche se fumettosa e melò.

Ricostruita e riadattata dallo scenografo Adam Stockhausen e dalla set decorator Rena DeAngelo (anche se a molti non sfugge la consueta perfezione dei costumi della torinese Milena Canonero) a partire da Angoulême, città forse non casualmente nota a molti per il suo festival annuale del fumetto, e dintorni.

Analogamente accade per via di parole a “Cronache dalle terre di Scarciafratta” (minimum fax) in cui Remo Rapino ricostruisce intorno alla Rocca di un borgo immaginario, una spoon river dell’Italia interna. Dialetto e calanchi ci portano a situare Scarciafratta nell’entroterra tra Vasto e Lanciano nella cui ultima l’autore vive e in cui aveva ambientato il fortunato precedente di “Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio”, premio Campiello e finalista Strega 2020.

La geografia delle aree interne appenniniche centro-italiane non può che recare il ricordo commosso e ripetuto della Grande Ferita Sismica – “La Cosa Brutta” come la chiama il narratore Mengo – e dello spopolamento. Eppure andare via è perdere l’anima del luogo, e con essa l’Essere, perché abitare è essere (in un luogo) e andar via non è garanzia di rinascita.

″È che non c’è più nessuno qui, sulla Rocca, santa Rocca benedetta nei secoli dei secoli, Spirito Santo, anima del Purgatorio, una sola grande pietra, sopra fa da guardia il Castello, sotto Scarciafratta tutta. Più nessuno: questo è. Ma voi andate. Andate con i vostri passi furiosi che non lasciano orme eppure spezzano i fili d’erba che fanno primavera.

Andate con quell’aria smorta, lasciandovi alle spalle solo il silenzio e quel niente che resta. Andate pensando d’inventarvi un’altra vita e vi credete che siete padroni di tutto e, invece, siete padroni di niente, e fate finta di non saperlo. Che è soltanto un morire dentro, quello è un posto che non vi appartiene, pure se vi chiameranno quelli della città”.

Così il 21 luglio 1969 mentre qualcuno scopre un altro luogo lontanissimo e sconosciuto, e tale rimasto fino alla presunta fantascienza complottista, Mengo lascia la sua Rocca – o meglio la sua Villa Adriatica dove è confinato – fatto di vita, a tratti folle, ma dal racconto sempre vivo e presente nonostante la necrologia. La storia del Mondo vive di questo infinitamente piccolo e indefinitamente lontano, assenza e presenza, ricordo e smemoratezza. Anche quando i luoghi di fatto inabitati sembrano lunari.

E seguendo la luna, ci spostiamo a Venezia, luogo immaginario almeno quanto reale come i due precedenti, a cui Cees Nooteboom per affinità olandese consapevole dell’acqua, dedica il suo “Venezia. Il leone, la città e l’acqua” (iperborea). “Il tempo qui non pesa nulla” scrive. “Questa città non si ferma mai, né nell’immaginazione, né nella realtà” articola. “Questa è sempre stata una città per forestieri” sottolinea. Ma più si lancia nel corpo al corpo con il senso di questa isola o pesce o ginocchio rotto (immagine di Valeria Luiselli) e più è costretto a riconoscere che è un senso impermanente, sfuggente. Libresco o visivo ma sempre artificioso anche se con una longitudine e latitudini perfettamente numerate. Tanto che scriverne sembra sempre un immaginare. Ragnatela e labirinto sono le due immagini simbolo, geometria perfetta ma sconfinata come un rebus di Escher.

In fondo Venezia, spiega Nooteboom è “una città dove sono successe tante cose, dove tanti vivi diversi hanno abitato, ha prodotto anche tipi molto diversi, di non più vivi”. Almeno quanto, diremmo noi, Ennui-sur-Blasé o Scarciafratta, sicuramente quanto il Grande Racconto di luogo.




Questo articolo è già uscito su HuffPost

Founder e direttore di "Perdersi a Roma" collabora con Il Messaggero, il Venerdì e Nuova Ecologia. Ha pubblicato libri di prose, poesie e narrativa di viaggio tra cui "Letti" (Voland), "AmoRomaPerché" (Electa-Mondadori), "La gioia del vagare senza meta" (Ediciclo), "Fùcino" (Il Sirente), "Il mondo nuovo" (Mimesis), "Andare per Saline" (Il Mulino) e "I segni sull'acqua" (D editore).