invettive

Imitazione della natura

Pubblichiamo il brano che chiude la raccolta di saggi di Claudio Damiani “La difficile facilità. Appunti per un laboratorio di poesia” (da poco uscito per Lantana).

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Gentile Claudio Damiani, sono Tania, la tirocinante del Centro di Poesia di Bologna (per intendersi, quella con i capelli rossi!). Ieri mentre sorseggiavamo il tè mi sono dimenticata di fare una domanda fondamentale, che sto rivolgendo a diversi poeti per un’indagine che forse diventerà oggetto di tesi: "A cosa serve la poesia (oggi)?". è una questione che ci siamo posti una mattina con Valerio Grutt e stiamo sondando le reazioni dei poeti… Se volesse contribuire con la sua opinione, ci farebbe piacere!
Un saluto dal Centro.
Tania Nelli




Io penso che la poesia, le arti e le scienze, e tutto ciò che noi produciamo e usiamo, siano imitazioni della natura, o prolungamenti o parti stesse di essa. Con “natura” intendo il cosmo, il tutto, al modo degli antichi fisici greci. L’uomo è dentro la natura, e in quanto dentro non ne può uscire (ma si può, e deve, sempre più addentrare). Se lui si muove si muove tutta la natura con lui.

L’uomo è dentro la natura ma non nel senso che lui (insieme a tutte le altre umanità del cielo) ne sia la mente. Penso invece che la sua mente stia accanto alla mente della natura. Cioè anche la natura ha una mente, una storia ecc. L’uomo è una parte di questa mente, e la sua storia è una parte della storia della natura.

Ora le parti della natura possono essere più o meno vicine alla mente, al cuore di lei, più o meno vicine alle sue parti più profonde e intime. Le macchine ad esempio, e tutto ciò che noi chiamiamo “artificiale”, sono imitazioni della natura molto semplificate, schematiche. La scienza, la filosofia, le arti invece, compresa la poesia, sono imitazioni complesse, che vanno in profondità, nell’intimo dell’essere. I loro prodotti sono esseri vivi, non meccanici.

L’arte è viva perché la natura è viva, ora anche la scienza l’ha capito. Voglio dire che la natura non è meccanica. La scienza, per semplificare, l’aveva superbamente pensata meccanica. E’ stata una hibrys questa, sì, che abbiamo anche pagato. Anche se io penso che nel suo intimo la scienza l’abbia sempre saputo che la natura era viva e imprendibile, e che assomigliava all’arte.

Dunque “a cosa serve la poesia?”. E’ come se dicessimo: a cosa serve la natura? E’ una domanda non stupida, anzi. Perché ci viene fatto di dire: la natura c’è, e basta, non ha senso porsi la domanda a che serva. E così la poesia c’è e basta, e parlare di “morte dell’arte” è come parlare di morte della natura, o di morte della scienza.

E’ una domanda non stupida, ma a cui non possiamo rispondere. Noi possiamo solo incontrare, vedere quello che c’è, e quindi fare arte e scienza. Noi possiamo solo “imitare”, come l’artista che esce fuori “en plein air” e copia il paesaggio, come lo scienziato che osserva il cielo o le particelle elementari all’interno dell’LHC. Ecco noi possiamo solo “osservare”. Nel senso anche di osservare un compito, un impegno, rispettarlo.

Proprio perché scienza e arte sono nel cuore, nel fuoco della natura, sono anche ciò che ci rende maggiormente felici, e realizzati. Se invece ci allontaniamo dal fuoco, verso imitazioni più labili, copie di copie, andiamo anche verso l’infelicità. La poesia dunque (e tutte le arti, e la natura, e la scienza) “serve” nel senso che “ci” serve. Ci serve a realizzare di più la nostra vita, e i compiti affidatici, mettendoci a contatto con le parti profonde del cielo, e di noi, ci porta come per mano a vedere la fucina dei motori, dove le cose ricevono il movimento.




Siccome questo concetto non so come dirlo, riporto qui di seguito un mio breve dialoghetto: “- Presente e passato convivono nel presente. E il tempo in ogni istante è una parte e insieme il tutto.

– Sì, ma lo senti il presente come rumoreggia? Ti prendo per mano e ti porto in un corridoio. Ci sono delle porte, le apriamo e andiamo avanti. Dopo ogni porta il rumore è più forte. Alla fine apriamo l’ultima porta e siamo davanti a una cascata, proprio davanti ai nostri occhi, e il rumore è fortissimo.

– Sì, il rumore è assordante, c’è questa nube gassosa bianca in cui noi siamo dentro. E’ strano, l’acqua sembra cadere sulle nostre teste ma non sentiamo alcun male.
– Sì, tonnellate di acqua gelida ci cadono addosso e noi non sentiamo niente. Aggiungi che il rumore avrebbe dovuto romperci i timpani da un pezzo.

– E invece non ce li ha rotti. Ora anzi percepiamo un silenzio, lo sentiamo come qualcosa di profondo e tenero, come una musica meravigliosa. La nube bianca si dirada fino a diventare aria trasparente e fresca. Aria che respiriamo, e intorno cari monti e boschi, cielo azzurro e nubi, valli e fiumi che scorrono lenti”.




È nato nel 1957 a San Giovanni Rotondo. Vive a Rignano Flaminio, nei pressi di Roma. Tra le sue raccolte poetiche ricordiamo "Fraturno" (Abete, 1987) e "Attorno al fuoco" (Avagliano, 2006, Premio Mario Luzi, finalista Premio Viareggio). Per Fazi Editore ha pubblicato "La miniera" (1997, Premio Metauro), "Eroi" (2000, Premio Montale), "Poesie", "Il fico sulla fortezza" (2012, Premio Camaiore, Premio Brancati) e "Cieli celesti" (2016).