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La comitiva dei palazzoni (racconto di un’adolescenza)

Questo racconto di Andrea Caterini, di cui qui leggete un breve estratto iniziale, viene dritto dritto dall’ultimo numero della rivista “I Quaderni di Achab”, dedicato a Roma e curato da Filippo La Porta, edito da Nando Vitali (Compagnia dei Trovatori). Ringraziamo autore, curatore ed editore. Il racconto è ambientato nelle vie della borgata romana di La Rustica dove l’autore si è formato e vive.



Ricordiamo che Andrea Caterini, critico e scrittore nato a Roma nel 1981, ha pubblicato “La guardia” (Italic, 2010) e “Patna. Letture dalla nave del dubbio” (Gaffi, 2013), “Giordano” (Fazi, 2014). Il suo ultimo libro è “La preghiera della letteratura. Sulla misericordia, il bene e la fede (Fazi, 2016).

Nella foto, Andrea Caterini
Nella foto, Andrea Caterini

La comitiva dei palazzoni (racconto di un’adolescenza)
di Andrea Caterini

Col vostro permesso, una piccola premessa d’autore.

Questo racconto è stato scritto nel 2008, nello stesso anno in cui venne pubblicato il mio primo romanzo. Mi è stato difficile persino rileggerlo, tanto me ne sento lontano; non che lo avessi cancellato dalla memoria, ma certo non mi sarei mai sognato di pubblicarlo se l’amico Nando Vitali non mi avesse chiesto di parlare della mia città per questo Quaderno di «Achab». E di quale fetta, o porzione di città avrei dovuto parlare se non di quella dove sono cresciuto e dove tuttora vivo? Eppure, parlare della mia periferia, la Rustica, un quartiere che qualcuno conoscerà per essere anche un’uscita del Grande Raccordo Anulare (tra la Prenestina e la Tiburtina), mi è oggi impossibile; o quanto meno è impossibile farlo nel modo in cui l’ho espresso in questo racconto (potrei tentare un’analisi psicologia di questa impossibilità – una rimozione, una cesura, o che altro? –, ma non è certo questa la sede). Allora per quale ragione ho accettato di pubblicarlo in quella che è la sua versione originale, senza neppure apportare delle correzioni di stile – lo stile che userei oggi? Credo che se lo avessi riscritto la vitalità di questo racconto si sarebbe perduta, e con essa anche la sua ragione d’esistere. Ho creduto fosse giusto lasciarlo così com’era, come una testimonianza di quello che fu la mia adolescenza in borgata – il luogo e la stigmate di un’origine. Una testimonianza che, se fosse scritta oggi, forse nessun giudice si sentirebbe in dovere di depositare agli atti.




1.
Una nebbia opalescente s’era infittita davanti al viso di Mario. Restava lì, gli altri stentavano a riconoscerlo e cominciavano ad irritarsi. Mario tirava il fumo e gli si scavavano le guance e anche il torace stretto, lo stesso per il quale lo avevano riformato a tutti gli sport, sembrava chiudersi a imbuto fin sotto la vita.
«Fa’ gira’ ‘sta canna!»

Trippa non ci stava a vedersi finire sotto gli occhi l’ultima canna della serata. Aveva comprato lui quella sera un decino dai marocchini e diceva pure che lo avevano mandato male. «Tre canne pe’ du’ scudi è ‘n furto», si era detto, «ma se nee prenno, stasera rimango senza». Aveva voglia di mandare a ‘fanculo quell’altruismo che vuole che una sera compro io, una sera tu, una sera l’altro, però comunque si fuma tutti insieme. Era una legge implicita che garantiva da anni la fumata sicura di ogni sera.

Bizio aveva cominciato a battere i palmi delle mani sulle cosce in un ritmo africano e qualcuno già gli diceva di comprarsi una batteria, che era diventato insopportabile e avrebbero preferito ascoltarlo in qualche concerto di piazza, a una festa dell’Unità o dove voleva lui, ma non nel rito della sera. Sfregava le mani l’una sull’altra, come a riscaldarle, poi se le portava vicino alla bocca e ci soffiava dentro iniziando subito a farle formicolare ancora una volta sulle gambe. Si isolava, era forse un modo tutto suo d’attendere. Lo sguardo oltre il cerchio del gruppo, fuori da quella prigione quotidiana sognava il delirio di una vita diversa senza mai colpevolizzare nessuno, senza mostrare mai la sua diversità, il suo sentirsi artista, seppure di strada, ma talentuoso.

Trippa aveva strappato dalle mani di Mario quello che era rimasto del cartoccio e si era alzato in piedi tirando con foga gli ultimi quattro cinque tiri lasciandolo spento tra le dita, come a garantirsi la conseguenza del bottino. Anche Lele si era alzato in piedi e aveva detto con la spavalderia di sempre «Me vado a frega’ l’abbacchio!» «Casomai l’agnello, Lele!» gli aveva fatto eco Bernardo e Lele lo guardava come a dirgli di non essere sempre così puntiglioso e, del resto, se aveva capito a cosa si riferisse, perché correggerlo? Lele sembrava pensare alle cose più per la loro funzione che per quello che erano veramente. Se aveva chiamato l’agnello abbacchio era perché lo aveva già immaginato in tavola come una delle porzioni del pranzo del giorno successivo.

«Mi’ madre lo sa pulì, m’o racconta sempre che quanno era ragazzina la nonna la portava co’ lei a rasà ‘e pecore!»

«Tu’ madre è più brava a pulì quarcos’artro» aveva detto Trippa e Bizio e Bernardo si erano messi a ridere di cuore. Mario era un tutt’uno con la panchina di marmo invece, e aveva chiuso gli occhi e messo le mani dietro la testa. Lele lo aveva guardato, e rivolgendosi a Bizio «Mario sta già cotto» e si era allontanato correndo verso la rete metallica. Aveva deciso di scavalcare, era una questione d’onore ormai, non poteva portarsi dietro la nomina del “cazzaro” per tutti quegli anni. L’importante era prendere l’agnello, poi avrebbe deciso se presentarlo o no alla madre. Lele scavalcò la rete e Bernardo gli gridava contro che se il pastore lo avesse visto gli avrebbe sparato una pallottola a sale. Ma quello era partito. Tutti si alzarono dalle panchine e si avvicinarono al verde, tranne Mario che ormai pareva proprio essersi addormentato, tanto che Bizio lo aveva coperto col suo piumino.





Lele stava già passando tra le pecore addormentate, aveva individuato il piccoletto in fondo al pratone. Camminava piano, gli altri gli facevano il palo.
A Lele tremavano le gambe, si era già pentito di quella sparata, si era chiesto chi glielo faceva fare a farsi vedere coraggioso dagli altri, che forse sarebbe stato meglio essere come Bizio che si faceva sempre i cazzi suoi e se ne stava isolato pure in mezzo agli altri.

Il gregge di pecore era accucciato a formare un’unica massa solida. Riusciva a vedere a stento dove metteva i piedi. Sentì un odore forte invadergli le narici. Una miscela di letame ed erba inumidita dalla brina notturna. Sentì il terreno sotto la suola delle scarpe cedere in alcuni punti, doveva essere fanghiglia. Lele aveva paura. Non avrebbe saputo dire di cosa, ma il cuore gli batteva più forte e aveva preso a voltare la testa da una parte all’altra con scatti continui. Nel voltarsi aveva incrociato lo sguardo di Bernardo che voleva dirgli di stare attento, seppure una strana eccitazione lo teneva concentrato alla scena.

Nel frattempo anche Mario aveva aperto gli occhi e non riusciva ancora a capire bene cosa stessero combinando quelli lì, tutti ammucchiati l’uno sull’altro con lo sguardo verso il terreno del pastore. Passò gli occhi su tutto, Mario, sui palazzoni grigio-beige alti sette piani nei quali abitava da sempre e che non avrebbe lasciato, aveva detto più volte, per nessun motivo al mondo. Non sapeva immaginarsi fuori da quel recinto, fuori da casa sua; non sapeva immaginare una vita diversa da quella risolta in famiglia, una vita sua, insomma. Mario non sapeva immaginarsi fuori di sé. Camminava a passo lento, portando il suo corpo precario vicino a quello dei compagni. Si fermò a metà strada e tirò su da terra un sasso trovato sull’asfalto. Lo fece roteare sul palmo, sentì gli spigoli pungergli la pelle e lo strinse con più forza, come se il dolore gli garantisse una maggiore rincorsa all’azione che stava per compiere.




I nervi delle braccia si erano irrigiditi e anche l’osso del gomito sembrava mordere lo snodo di tutto il corpo. Le voci degli amici erano sottili, riusciva a sentire a malapena Bernardo che sussurrava a Bizio una preoccupazione. Si avvicinò deciso, sembrava ridicolo ora che si arrampicava anche lui sul muretto con la forza di un braccio. Trippa lo accolse vicino a sé con una pacca sulla spalla e gli spiegò in breve cosa stava combinando «quel coglione di Lele»; ma Mario non lo stava a sentire, guardava solo la figura nera che si muoveva con tremore sul prato che in breve si era accucciata nella presa di qualcosa.
Sentirono tutti un belato leggero, ma stridulo, come di ragazzino. Lele aveva preso per le zampe il piccoletto e qualche pecora si era svegliata andandogli incontro. Mario sentì una morsa in petto e ancora il dolore nel palmo della mano. Mosse le dita, il sasso era sempre più caldo; mirò la figura nel prato chiudendo un occhio, come a misurare meglio l’obbiettivo, e caricò un lancio con quanta più forza aveva.

Gli amici si voltarono tutti verso di lui. Bernardo gli gridò contro «Ma che sei scemo!», Trippa rideva come un pazzo, Bizio fu più attento a vedere cosa sarebbe successo.
Il sasso non raggiunse Lele, che aveva ancora quel coso tra le mani, ma la massa informe di pecore. Erano tutte in piedi ora, e il belato aveva creato un’unica, agghiacciante eco. Qualche luce si accese poco più in là, ed erano quelle della casa del pastore.

«Scappa, Lele, scappa, perdio! che quello te spara» aveva gridato Bernardo «Mo’ so cazzi tua!» continuava Trippa «Cori, cori… coremo pure noi» aveva chiuso il cerchio della confusione Bizio. Ma era troppo tardi, il pastore puntava il fucile sul volto del ragazzo a distanza ravvicinata. Lele era rimasto immobile, non gli tremavano nemmeno più le gambe.

Riuscì solo a vedere la canna larga del fucile che gli era puntato contro. Anche il pastore era rimasto fermo, aspettando probabilmente che la prima mossa la facesse l’altro. Rimasero in silenzio per qualche secondo.
Poi, l’aria fu tagliata dal pianto galleggiante dell’agnello.