racconti

La neve lungo la ferrovia

La neve lungo la ferrovia è il titolo con cui pubblichiamo un estratto da “La casa della memoria e dell’oblio” di Filip David nella traduzione di Manuela Orazi e Dunja Badnjevic´ con postfazione di Božidar Stanišic´ da poco uscito per la Bordeaux.




Sono nato nella cittadina di N., sulle sponde del Danubio. Qui ho trascorso l’infanzia, qui mi sono sposato. Ho trascorso tutta la vita in una casa alla periferia della città. Mia moglie mi ha dato un figlio, un ragazzo che amavamo più di chiunque altro al mondo.

Ma le disgrazie accadono quando meno ce le aspettiamo, impietosamente, all’improvviso e cambiano in un attimo l’intero corso della nostra vita. Nella primavera del 1941 Hans era andato a fare un bagno con gli amici al fiume. Si era allontanato dalla riva, un vortice lo ha afferrato e lo ha trascinato nel profondo.




Abbiamo cercato il suo corpo per giorni, ma non lo abbiamo mai ritrovato. La mia Ingrid sembrava aver perso la ragione, forse era davvero così. Stava seduta in un angolo della stanza a piangere, ammutolita e si è ritirata in se stessa nell’inferno che si era aperto dentro di lei. Non era facile neanche per me, ma si doveva vivere – alcune delle cose che accadono non si possono né modificare né aggiustare.

Aggiungo che ero una guardia forestale. Forse questo mi ha aiutato ad accettare la realtà per quello che era. Girovagavo tutto il giorno per i campi e per i boschi, a caccia di bracconieri. La guerra si avvicinava. La maggior parte degli abitanti della nostra cittadina erano tedeschi, come me e Ingrid. Ci chiamavano volksdeutscher.




I miei connazionali aspettavano con ansia l’arrivo dei tedeschi, mentre a me era indifferente. Per la verità, avevo appeso alla parete la foto del capo del Reich Adolf Hitler accanto all’icona di San Giorgio, come facevano tutti. Non odiavo nessuno e il mio cuore era ancora stracolmo di tristezza.

Quando i tedeschi arrivarono nella nostra città furono accolti come fratelli, con calore e amicizia. Già da prima in città c’era l’associazione Kulturbund, per il rafforzamento dei legami con la Germania.

I giovani indossarono le uniformi tedesche e si unirono ai soldati della Wehrmacht. Nella mia uniforme di guardia forestale io ho servito tutti i governi, quindi anche quello. Cambiarono molte cose, non soltanto il governo.

Tutti dicevano che la guerra si era ormai conclusa con la vittoria della Germania, ma si percepiva ancora un’atmosfera di grande incertezza. Mi inoltravo nel bosco raramente, era diventato pericoloso, non si sapeva chi vi si poteva incontrare e da chi si poteva ricevere, senza motivo, una pallottola in testa.

Camminavo prevalentemente sul bordo del bosco, seguendo i binari, solo per non stare in casa accanto alla donna il cui dolore, a causa della mia impotenza, mi portava alla disperazione.

Lungo la ferrovia, senza più rispettare gli orari che conoscevo a memoria, ora passavano treni che portavano l’esercito al fronte e, dall’inizio dell’autunno, anche i carri bestiame, attraverso le cui fessure i passeggeri sbirciavano gridando qualcosa, ma io voltavo la testa e mi facevo gli affari miei. Accanto ai binari trovavo sempre più spesso messaggi scritti in varie lingue su pezzetti di carta, gettati fuori da quei treni, indirizzati a qualcuno in qualche luogo.




Li leggevo solo distrattamente, poi li stropicciavo e li gettavo via, avevo già abbastanza dolore per immischiarmi in quello degli altri. Solo dopo seppi dove andavano quei treni e chi trasportavano. Tuttavia, né avrei potuto aiutare qualcuno né la cosa mi riguardava.

L’inverno del 1942 ci avvolse in una spessa coltre di neve. Era uno di quegli inverni terribili in cui anche gli animali selvatici muoiono per il gelo e per la mancanza di cibo.

In un freddo mattino m’incamminai, carico di alcune balle di fieno, per portare agli animali del bosco l’aiuto che mi era possibile.

Non era propriamente il mio compito, ma non c’era nessun altro ad occuparsene, mentre io in un certo senso sentivo che il bosco e gli animali che vi vivevano erano affidati alla mia custodia.