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A Londra, al Museo della Rivoluzione

A Londra, al Museo della Rivoluzione. Questo articolo su “You say you want a revolution Records and Rebels 1966-1970”, al Victoria and Albert Museum di Londra fino al 26 febbraio è uscito sull’ultimo numero di “Alias – il manifesto” che ringraziamo per la concessione alla pubblicazione.





Fare il museo della rivoluzione è assurdo quanto fare un museo dell’amore. Che però, a pensarci, venne già allestito, pur se in forma di libro, da Roland Barthes in Frammenti di un discorso amoroso (1977), per non parlare del Museo dell’innocenza di Orhan Pamuk. Dunque si dia una chance anche a “You say you want a revolution Records and Rebels 1966-1970”, al Victoria and Albert Museum di Londra fino al 26 febbraio.

Anche questa è una collezione di frammenti, ciascuno dei quali è una scheggia che si conficca nel cuore o nella mente o sotto i piedi: dipende dall’età anagrafica del visitatore. Nel grande museo specializzato nelle arti minori, la celebrazione del Sessantotto è allestita accanto ad altre due mostre temporanee, una sull’abbigliamento intimo dal Settecento ai giorni nostri e un’altra sui ricami inglesi del Medioevo. La giustapposizione è spiazzante, come qualunque sistemazione di un vissuto caldo dentro un faldone freddo della Storia, ma anche la semplice idea di musealizzare una rivoluzione è qualcosa che disturba (o rassicura, a seconda dei punti di vista).




L’essere «qui e ora» della cultura hippy e di un engagement politico che si realizzava in manifestazioni di piazza, in discussioni collettive e in scontri anche cruenti on the road si è cristallizzato in un allestimento museale cui si accede pagando 16 sterline (21 euro) e di cui si usufruisce camminando tra un padiglione e l’altro mentre si ascoltano in cuffia musiche e documenti sonori da un’audioguida intelligente, compresa nel prezzo, che si attiva da sola all’accostarsi a un determinato oggetto esposto.

Scartabellare tra i vinili originali 1966-1970 dai Beatles ai Tyrannosaurus Rex di Marc Bolan; osservare gli abiti di Carnaby Street e i vestiti di scena del giovane Bowie crea ad esempio una fitta di nostalgia per una sorta di futuro di liberazione ormai distrutto da un presente oppressivo, identitario e securitario, un mondo in cui l’onda della Swinging London arrivava fino in Pakistan, dove le zie di Hanif Kureishi «a Karachi indossavano la minigonna e bevevano cocktail».

I memorabilia in esposizione meritano di sicuro una visita: le foto originali ingrandite, che sono al centro della trama di Blow up di Michelangelo Antonioni, ad esempio; oppure il sitar acquistato da George Harrison durante le sue esplorazioni indiane e usato in alcune incisioni di Sgt. Pepper; i resti delle chitarre distrutte in concerto da Pete Townshend e da Jimi Hendrix, o una lettera di Bill Clinton studente universitario che esprime il suo timore di dover andare a fare la guerra in Vietnam (timore sfumato, come per molti altri giovani bianchi benestanti dell’epoca).

Vedere però i visitatori aggirarsi con le cuffie dell’audioguida in testa tra oggetti ‘rivoluzionari’, o almeno tra le schegge ancora incandescenti di quegli oggetti (bibliografia sull’LSD, documentazioni del processo ad Angela Davis e sulle Black Panthers), mette malinconia. Ciascuno è chiuso nel suo bozzolo multisensoriale, ciascuno fa esperienza della mostra in solitudine e anche in una modalità quasi eterodiretta, perché l’audioguida fa tutto da sola: se la si avvicina a un video, produce l’audio corrispettivo, se la si avvicina alla messinscena tridimensionale della copertina di Sgt. Pepper¸ produce una canzone dei Beatles.




Eppure la musica è un fatto collettivo, come lo è l’abbigliamento. Come, soprattutto, è collettiva una rivoluzione, e tanto più se è rivoluzione dei costumi, ovvero dei modi di stare insieme. Il contrasto fa pensare alla riflessione di Sartre, uno dei maestri del Sessantotto parigino: la rivoluzione comincia trasformando una «serie» di individui isolati (come coloro che aspettano l’arrivo di un autobus alla fermata) in un «gruppo in fusione», e si spegne quando il gruppo si sgretola in una nuova serie di individui che perseguono i loro interessi privati.

Tuttavia la contraddizione è anche uno dei temi costitutivi della mostra, perché la mappatura del quinquennio sessantottino non può non illustrarne la dialettica interna. E qui si rivela anche la fedeltà dei curatori allo spirito del V&A, che è in primo luogo un museo di oggetti d’uso. Così nella grande sala dedicata al concerto di Woodstock ci si può sdraiare su un prato d’erba artificiale (astroturf: la parola, per chi la voglia approfondire, rivela tutte le contraddizioni politiche del caso) per ascoltare e vedere brani del film su un quadruplice schermo gigante che dà l’effetto «io c’ero». Però è possibile anche investigare con occhio critico fra le teche: scrutare le carte dei contratti d’ingaggio dei vari artisti che si esibirono a Woodstock, mentre sullo sfondo giganteggia una batteria di Keith Moon degli Who, che volendo, con un po’ di faccia tosta, si può anche percuotere.

Il Sessantotto degli oggetti di consumo è dietro l’angolo, nella sala finale della mostra dedicata appunto al Consumerism. La pubblicità, con la zuppa Campbell che fa la spola dalla pop art di Andy Warhol agli scaffali dei supermercati; gli elettrodomestici e i primi computer, il primo mouse, grande quasi come una scatola di biscotti. I viaggi in aereo e le agenzie di viaggi, le astronavi. Viene da concludere che il Sessantotto è stata in larga parte una creazione della generazione nata nei primi anni Quaranta, donne e uomini che, nati attorno alla Seconda guerra mondiale, non ne volevano una Terza.

Invece, hanno esplorato molte strade, in direzioni anche opposte, per godere in pace della vita here now, dall’invenzione del benessere psicofisico, alla riscoperta della sapienza indiana, dalle acconciature selvagge alle chitarre elettriche distorte alle comodità domestiche (prime fra tutte: la lavatrice e il frigorifero).

Infine, ed è qui la contraddizione ultima, dalla gioia del condividere le esperienze alla gioia del godimento privato (e si crea così una strana saldatura tra il mio frigorifero e il mio trip lisergico). Ma la mostra rivoluzionaria è giunta al termine, e il passaggio al negozio del Museo, dove si possono comprare i jeans, le magliette e i poster della mostra, è persino impercettibile.




Scrittore, critico e traduttore ha pubblicato "Brenda e Plotino", "Se mi chiami amore" e "Nero Istanbul": tutti per Fazi. Scrive su "Alias - il manifesto".