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Marino Magliani

Marino Magliani, uno scrittore e la sua terra: la Liguria (Dolcedo dove è nato e tutta la propaggine al confine francese) e la Liguria dei suoi libri.

Marino Magliani è uno scrittore che viaggia di persona in persona, confidenzialmente. E che di libro in libro continua a raccontare la sua storia con una scrittura sempre nitida e immaginifica. Una storia anche geografica (sospesa tra la costa olandese dove vive alternando periodi in Liguria).

Una storia fatta di mille mestieri e da presto di traduzioni soprattutto dallo spagnolo e dal nederlandese. Lontano dai riflettori eppure ammirato e apprezzato dalla critica già dai primi testi usciti per Sironi al principio degli anni 00 (Quattro giorni per non morire, su tutti) con il romanzo storico (linea espressiva che alterna al racconto personale) Il cannocchiale del tenente Dumont (L’Orma editore) è entrato tra i12 candidati al Premio Strega 2022.

La sua scrittura vive di sospensioni, intanto quella sradicata olandese e quella del parallelismo delle due coste contrapposte davanti alle quali vive – quella del Mare del Nord e quella mediterranea – entrambe contenutusticamente rilevanti nel suo profilo espressivo limpido eppure poetico.

La Liguria respira di una certa balnearità. Lo spirito avventuroso – penso al racconto che apre Peninsulario (Italo Svevo Edizioni) – passa naturalmente dal marinaresco al seduttivo. Quando il ligure smette i panni della pesca marina e scopre quella del rimorchio?

In questo caso la perde quando è, per citare la divisione che ne faceva Calvino, un ligure di roccia e non di scoglio. Il rimorchio del racconto lo attuano i liguri dell’entroterra, quelli di roccia, l’io narrante che va a vivere in Irlanda e poi, anzi prima di lui, il Manico, contadini che la sera saltano su un tre marce e si avvicinano alla mondanità della Riviera popolata da turisti e da liguri di scoglio.

In L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi (Exòrma Edizioni, 2017) hai raccontato la vita di emigrante di tuo padre se non sbaglio proprio da Dolcedo a Nizza. Era molto comune questa linea Transfrontaliera – parlando di quella regolare – tra Italia e Francia? Che ricordi hai personali o riferiti?

Mio padre aveva fatto le elementari, le sue uniche scuole, a Nizza e da adulto è tornato in Costa Azzurra, ma più a ponente, a Saint Raphael e a Saint Maxime. Faceva l’aiuto cuoco e io da bambino trascorrevo su quelle spiagge un mesetto.

I ricordi sono legati a una forzatura: non sapevo nuotare e dovevo stare in spiaggia, da solo, in mezzo a bambini francesi che sapevano nuotare e chiamavano la madre maman, e mangiavano marmellate che chiamavano confiture. Guardavo, tenendo sulla destra la riva, verso un’idea di frontiera, ragionavo sulla lingua, sbadigliavo.

L’altra cosa che mi colpisce andando in Liguria è quell’aria “europea” ora un po’ decadente ma ancora sensibile. Ricordo ad esempio quando intervistai Francesco Biamonti il suo forte retaggio, quasi un lignaggio, francese. L’hai sentito mai addosso? Pensi ci sia ancora o se si sia perso dove è andato a finire?

Quella di Biamonti, molto più francese, è una Liguria diversa dalla mia, come lo è quella di Conte, di Orengo, la mia Liguria è più boiniana, forse, anche in quella di Calvino, il cui padre era un botanico ma anche contandino, ritrovo me stesso.

“Soltanto il sole di maggio, con la sua luce unica e mediterranea, che inizia dopo Genova e finisce appena oltre la frontiera. Natura pura, zero deliri”. Mi sono sempre chiesto se Liguria e Francia – ora sto parlando di paesaggio, architetture – siano così distinte. 

Della questione della luce, che in Liguria è unica, ne parla molto e bene Biamonti, lui sostiene che a un certo punto in Spagna diventa luce africana e solo in questo pezzo di Liguria e Provenza è la luce perfetta. Certo, nel racconto della frontiera, ci gioca qualcosa di torbido, un traffico che ha coinvolto un poliziotto, una specie di resa dei conti, man mano che la frontiera si avvicina.

Comunque sì, anche se la mia valle non si può dire sia una valle di frontiera, questo dentro-fuori che sta un pugno di vallate alla fine anche nell’immaginario gioca un ruolo.

Dal punto di vista della legalità e illegalità come nelle storie di Biamonti e dei suoi passeur e nel tuo racconto sull’hascisc nella Valle del Roia la continuità è addirittura paradossale. L’autostrada è Francia ma sotto è già tutta Italia. Il gerbido (che è parola piemontese che usa talvolta Calvino) dove deve cadere “il morto” ovvero la droga è Italia.

Il gerbido però è anche molto ligure, del resto quanta Liguria e quanto Piemonte ci sono nello stesso contenitore letterario. Qui a dare una mano è proprio una stranezza, una anomalia architettonica: la costrizione di spingere la frontiera dell’autostrada in territorio italiano.

“Ma la Liguria aveva una trama?” si domanda un io narrante. Sinceramente me lo domando spesso anch’io. C’è molta poesia nella letteratura ligure e quando c’è racconto sembra sempre braccato dal verso (Boine o Biamonti) o, come in Calvino, dalla fantasmagoria o dalla storia in qualche modo esemplare.

Sono d’accordo, ci sono terre letterarie, e forse più sono soffitte dell’Italia più sono letterarie, isole. Il mio prossimo romanzo è un romanzo sulle isole liguri, che non sono poche, come pensiamo.

Per riprendere da un tuo racconto sembra che tutta la Liguria viva a partire da un mancato nostos. Qualcosa che la svuota in termini demografici ma anche di sviluppo come se persino chi ci vive avesse in qualche modo rinunciato (anche serenamente, peraltro) a viverci davvero, vittima di una serie di “atti mancati”.

In effetti sì, un degrado che è assomigliato a una specie di Medio Evo è iniziato col progresso, i vicoli amputati per far passare le macchine ecc. E poi si è abbandonato anche il progresso, ora si torna, a guardare quel mondo come un mondo unico, come un luogo che fa olio e non può far concorrenza a chi quell’olio lo fa in Spagna. C’è (c’è?) una coscienza.

Ultima cosa che ti chiedo. In una introduzione a un racconto parlando dei paesini di Valle Impero scrivi “Guardandola dall’autostrada uno si chiede: ma chi ci riuscirà a vivere in quei luoghi?”. Lo potremmo attribuire a qualunque luogo di entroterra ligure. C’è un’espressione linguistica o una condizione che coglie questa unicità del paesaggio ligure sospeso tra mare e montagna, terrazzato, scosceso e arroccato?

Non ricordo di chi fosse, probabilmente di qualche contadino al fresco che si è chiesto: ma chi ci può vivere nei nostri paesi di pietre rotte? Secondo me lo si può attribuire solo a un entroterra ingoiato dai rovi per la gran parte del suo territorio, solo guardando un’anomalia del genere, fatta di cattedrali di ulivi crollate, si può notare che c’è qualcosa che non va e che forse non va nel suo popolo.

Del resto, se si va sulla costa è una costa più o meno normale, mortificata certo, ma somigliante ad altre, che si arrampica subito, insomma le scogliere possono assomigliare a chissà quante altre scogliere e il mare è salato come altrove, mentre quel marsupio è solo lì, almeno, io non ne conosco altri.

La foto di Marino Magliani è di Umberto Germinale che ringraziamo per avercela concessa.




Founder e direttore di "Perdersi a Roma" collabora con Il Messaggero, il Venerdì e Nuova Ecologia. Ha pubblicato libri di prose, poesie e narrativa di viaggio tra cui "Letti" (Voland), "AmoRomaPerché" (Electa-Mondadori), "La gioia del vagare senza meta" (Ediciclo), "Fùcino" (Il Sirente), "Il mondo nuovo" (Mimesis), "Andare per Saline" (Il Mulino) e "I segni sull'acqua" (D editore).