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Nuvole. Racconto in otto quadri

Nuvole. Racconto in otto quadri: un inseguimento di sguardi amorosi in una Roma teverina.


1

Aveva appena smesso di piovere. Mario camminava sulla sponda del Tevere con lo sguardo fisso a terra e osservava le linee diagonali che i sampietrini, luccicando di una luce nera, disegnavano e cancellavano incessantemente.
I parapetti che salivano obliqui fino al livello della strada erano colorati da poche scritte a vernice e da qualche cespuglio d’erba selvatica e metropolitana. Dopo avervi gettato un’occhiata distratta, Mario riprese a fissare il selciato. Se avesse guardato in aria, gli sarebbe apparso un cielo carico di nuvole grigiastre e pesanti che si afflosciava all’orizzonte come una carovana di elefanti celesti.
Guardò l’orologio. Erano le sei della sera.

2

Da un caffè di vicolo del Cinque uscì una donna che riponeva con malagrazia il telefono in una minuscola borsetta. Aveva lo sguardo torvo di chi è rimasto per troppo tempo ad ascoltare invano il segnale di libero, ha concluso con un improperio una chiamata urgente e concitata o ha capito che la situazione è molto peggiore di quanto aveva creduto solo fino a pochi minuti prima.
La donna si ravviò i capelli e cominciò a camminare verso il Lungotevere Sanzio.

3

Mario sentì le ossa indolenzite dall’umidità. Risalì le scale e si trovò davanti il traffico delle automobili che avanzava come un grosso lombrico coloratissimo e pigro. Con finta noncuranza prese a zigzagare negli esigui spazi ritagliati tra le lamiere, addizionando a mente i numeri delle targhe che incontrava. Smise presto, perché la testa aveva cominciato subito a dolergli.
Spenta, l’insegna di un negozio che frequentava da tanti anni attirò la sua attenzione; la saracinesca era abbassata in orario d’apertura. Si avvicinò; sopra il grigio della lamiera un cartoncino bianco attaccato col nastro adesivo nero diceva “Chiuso per lutto”. Mario tirò su col naso e passò oltre, camminando sul marciapiedi.




4

La donna salì sulla sua macchina e si unì alla colonna delle auto immobili. Nei lunghi periodi di sosta guardava fuori dai finestrini, ma senza desiderio di vedere alcunché.
Aveva ricominciato a piovere e sui finestrini calò una cortina di gocce che offuscavano la vista del paesaggio. La donna la interpretò come un intervento provvidenziale e smise di guardare fuori, concentrandosi nei suoi pensieri.

5

Mario trovò rifugio dall’acquazzone nel portone di un palazzo senza portiere. Il giubbotto era completamente fradicio. Nel piccolo atrio le scarpe lasciavano impronte grigie e umide che disegnavano curve irregolari. Mario si fermò in un angolo a osservarle, chiedendosi se sarebbe riuscito a convincere un condòmino che non si trattava di macchie, ma di segni in cui non era difficile scorgere una linea, un profilo che, con un po’ di fantasia, avrebbe potuto dire qualcosa sul futuro come il volo degli uccelli o i fondi del caffè.
Nel portone, annunciata da un ombrello di tela gialla gocciolante, entrò la donna.

6

Mentre né Mario né la donna avevano ancora potuto dissimulare l’imbarazzo di trovarsi l’uno accanto all’altra, nel portone trovò riparo dalla pioggia un gatto randagio. Le sue piccole orme complicarono e infine confusero quelle delle scarpe. La donna inavvertitamente gli schiacciò la coda e Mario sentì tutte intere la distanza e l’estraneità fra il proprio orizzonte e quello di lei. Il gatto fissò i due umani coi suoi occhi impassibili davanti al dolore e uscì di nuovo in strada.
Di scatto la donna si girò verso Mario e gli si gettò al collo piangendo, sporcandogli la camicia di lacrime e di rimmel.
“Non trattarmi più in quel modo, mai più, mai più”. Così la donna gli chiedeva scusa.
“Oggi sono passato al negozio di tuo marito, Cesare il cadavere,” disse Mario.
Sapeva di ferirla e se ne compiacque.
“Tra noi non cambia niente. Mica penserai di incastrarmi davanti al prete.” Voleva vedere fino a che punto poteva irriderla, fino a che punto avrebbe potuto tenerla in scacco, possederla.
Fuori aveva smesso di piovere.




7

La donna baciò Mario sensualmente, lasciando che la propria saliva si mescolasse con quella di lui e andasse a lambire i lati della bocca, fino alle rughe nette che annunciavano le guance e custodivano il sale delle lacrime recenti. Poi d’improvviso si ricompose e si fece gelida.
“No, invece. Cambia tutto. Ti lascio, Mario. Ora che mio marito è morto non ha più senso continuare a incontrarci. Non siamo stati male insieme, mi piaceva il tuo modo buffo di essere violento. Ma non ti amavo: tradivo Cesare. Ciao, non mi cercare più.”

8

La donna sparì quasi subito. Mario rimase basito, immobile per qualche secondo; poi anche lui riprese a vagare. Camminava dritto come un filo a piombo, lo sguardo perso nel vuoto, le scarpe inzaccherate dal fango delle pozzanghere.
L’asfalto era rimasto asciutto, il cielo era sgombro e Olimpia anche quel pomeriggio aveva urlato di piacere sotto i suoi schiaffi. Ma un gatto gli attraversò la strada e Mario deragliò dal sogno: evitò una pozzanghera, vide il profilo di un rinoceronte in un nembo e capì che era rimasto senza una donna. Erano le sette in punto.

Le canzoni di aka Giuseppe Dolce, cantautore romano, sono ispirate a quello che succede nella vita, a Paolo Conte, a Tom Waits, a Enzo Jannacci, alle canzoni italiane dimenticate, ai blues indimenticabili e alle melodie nascoste tra le corde della chitarra.