recensioni

Pantera delle nevi e dei luoghi

Sylvain Tesson e “La pantera delle nevi” (Sellerio), letteratura senza genere.




Un romanzo può essere cupo, tempestato da pagine all’apparenza noiose, frasi incomprensibili o fumose o anche elementari eppure essere letteratura. La letteratura è luminosa per definizione ma può non essere visibile a occhio nudo. Perché la grana è troppo fine o grossa. Il microscopio o il cannocchiale sono gentilmente offerti dalla critica.

Da quella militante e da quella ufficiale, universitaria. Spesso anche gli scrittori possono farsi loro stessi garanti di un’analisi fedele e di una certificazione equipollente. Il sistema della certificazione di qualità non è certo scientifico per definizione e questo rende “storico” o “evenemenziale” il giudizio. Ma sul sistema rating la chiudiamo qui.

La letteratura traguarda tutto anche i generi. La letteratura di viaggio – a me personalmente piace più chiamarla “di luogo” – ne è la prova. In ogni caso è letteratura se è letteratura. Il fatto che al suo centro ci sia il racconto di spazi fisici non immaginari o ri-immaginati non ne riduce la possibilità “alta” e la distingue peraltro dal genere “guida”.

È il caso del libro di Sylvain Tesson “La pantera delle nevi” (Sellerio) – ma lo era anche del fortunato precedente “Sentieri neri” e del suo personale successo “Nelle foreste siberiane” (entrambi sempre per Sellerio) che ha vinto il Premio Médicis 2011.

La storia del nuovo libro è semplice: nel 2018 Sylvain Tesson viene invitato dal fotografo naturalista Vincent Munier ad andare alla ricerca degli ultimi esemplari della pantera delle nevi. Un animale magico e misterioso per il suo habitat di grande altitudine. L’autore con altri tre compagni di viaggio salgono a 5 mila metri per incontrarlo. Citando Novalis, l’autore decreta la forbice del vasto campo dell’esperienza umana:

“Novalis lo aveva detto in un modo più sottile: Noi cerchiamo l’assoluto e troviamo sempre solo cose”.

Quello di Tesson è infatti un viaggio che non è solo o meramente naturalistico cosa che emerge nel racconto:

“Stando con Munier, cominciavo a capire che la contemplazione degli animali ci proietta davanti agli occhi il nostro riflesso capovolto. Loro incarnano la voluttà, la libertà, l’autonomia, tutte cose alle quali abbiamo rinunciato”.

Ma il libro di Tesson come non è un libro naturalistico non è neppure solo un libro di luogo. Intessuto di riflessioni larghe si pone come una meditazione profonda che da un luogo del Pianeta spinge verso dentro.

“Una delle più morbose filosofie della liberazione dalla sofferenza, il buddhismo, aveva messo radici sull’altopiano tibetano nel X secolo. Il Tibet era il luogo ideale per porsi quel genere di domande”.

Ed emerge da un’altra citazione:

“Il monoteismo non avrebbe mai potuto nascere nel Tibet. La proposta di un Dio unico era stata formulata nella Mezzaluna fertile. Popoli di allevatori e di agricoltori si organizzavano in massa. In riva ai fiumi sorgevano le città. Non ci si poteva più limitare a sgozzare dei tori per la dea madre. Bisognava dirigere la vita collettiva, celebrare le messe radunare le greggi”.

Insomma – e per concludere -, il focus “luoghi” non esclude il poter gareggiare sul terreno dell’ampio scenario della “letteratura” e Sylvain Tesson lo sta dimostrando senza considerare incidentale il racconto di un luogo ma rendendo i luoghi la ragione dello scrivere senza cadere nel genere.

Founder e direttore di "Perdersi a Roma" collabora con Il Messaggero, il Venerdì e Nuova Ecologia. Ha pubblicato libri di prose, poesie e narrativa di viaggio tra cui "Letti" (Voland), "AmoRomaPerché" (Electa-Mondadori), "La gioia del vagare senza meta" (Ediciclo), "Fùcino" (Il Sirente), "Il mondo nuovo" (Mimesis), "Andare per Saline" (Il Mulino) e "I segni sull'acqua" (D editore).