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Pasolini: prima di parlare conta fino a 10

Oggi quarant’anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini. Dieci modi per ricordarlo. Ma soprattutto dieci modi per non dimenticarlo.

1 perché Pier Paolo Pasolini è uno, anche se molteplice e persino dissonante talvolta ma sempre uno. Uno che odiava le risposte univoche, la scrittura uguale (mentre noi ci accapigliamo per stabilire quale fu grande: se il saggista corsaro o il poeta civile o il romanziere). E ci pesa dover dire che se anche uno – sempre uno, sempre quello – non lo è grande in uno è meraviglioso in molto. Ed è una cosa rara.

2 perché non è da tutti morire nel giorno dei morti. Il 2 appunto, di novembre. Ucciso già morto. Fatto fuori dopo tanti pronunciamenti più o meno decisi e innumerevoli committenti più o meno innocenti, infine, da Pino La Rana (forse con altri). E poi ancora e ancora da tanti che dopo di lui o con lui si sono esercitati nella teoria dei complotti e nell’opalescenza del “se l’è cercata, in fondo”. In un ugualmente doppio binario che non rende giustizia a nessuno. Neppure alle intenzioni e a PPP stesso che nell’estate del ’60 dice “Non c’è stata una sola parola che io abbia scritta o detta che non sia stata fraintesa”.

3 perché “uno straccetto rosso, come quello / arrotolato al collo ai partigiani / e, presso l’urna, sul terreno cereo, / diversamente rossi, due gerani. / Lì tu stai, bandito e con dura eleganza / non cattolica, elencato tra estranei” come PPP in questa sezione 3 de “Le ceneri di Gramsci”. Elencato tra estranei. Dopo di lui e a lui tali e noi dovremmo piuttosto dire “la tua tensione, sento quale torto / – qui nella quiete delle tombe – e insieme / quale ragione – nell’inquieta sorte / nostra”. Inquieta, già.

4 come l’ora in cui inizia l’ultima intervista, il giorno prima della morte, in cui PPP dice tra le altre a cose a Furio Colombo: “Il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogati e soggiogatori. (..) Uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classe dirigenti, giù fino ai poveri. Ecco perché tutti vogliono le stesse cose e si comportano nello stesso modo. Se ho tra le mani un consiglio d’amministrazione o una manovra di Borsa uso quella. Altrimenti una spranga”. Nel volere quel che voglio spiega, faccio comunque una violenza che giustifico perché reputo virtuosa. “Sono assassino e sono buono”. Dopo qualche ora è assassinato.

5 come i maschi “presi da un’allegrezza sporca di sangue come una macelleria” a cui è interessato il caldarrostaro bruno di “Ragazzo e Trastevere” alienato tra l’amministrazione delle “due serie di numeri paralleli delle castagne e delle lire”. Un esempio ulteriore dell’alienazione in formato mignon e con un baedeker ridottissimo. In cui il sangue e la violenza nascondono la bellezza di Roma che invece coglie lo sguardo di PPP.

6 il film numero 6 di PPP è un episodio de “Le streghe”. E’ “La terra vista dalla luna” inizia davanti a una tomba attorno a cui piangono Totò e Ninetto Davoli. Continua in una chiesa dove Ciancicato Miao (Totò) sposa la Mangano. Prosegue in una casa umile e in un tentativo di suicidio inscenato in cima al Colosseo che si conclude in una morte accidentale. Una buccia di banana che somiglia a una profezia che si autoavvera in maniera paradossale e comica. Finisce, infine, con un fantasma che non lascia la scena. E questo ci fa pensare ancora e sempre a PPP.

7 come i sette testi per canzoni che ha scritto PPP. Forse la più famosa rimane “Cosa sono le nuvole” che canta Domenico Modugno (coautore). Nel testo c’è uno conturbante sillogismo: “il derubato che sorride/ruba qualcosa al ladro / ma il derubato che piange /ruba qualcosa a se stesso”. Sembra contenere un’atarassia e un lasciar vivere che hanno una loro utilità in tempi di generali ruberie. Anche metafisiche, per carità.

8 l’ottavo e ultimo episodio in cui è diviso il testo teatrale “Affabulazione”, vede il finale in un Edipo rovesciato in cui il padre uccide il figlio e rivela di essere “assassino di un figlio abulico, anacronisticamente innocente”. E prega “lasciami ricominciare daccapo” non si sa se la sua vita o il suo parlarne senza soluzione.

9 era il 9 di dicembre del 1973 quando PPP sul “Corriere della Sera” scriveva – in una delle attività che gli saranno più congeniali, quale l’osservazione del presente, almeno quanto la profezia e il senso della sacertà della tragedia umana – un testo rimasto simbolico: “Contro la televisione” e il suo potere. Vi si legge: “Si può dunque affermare che la ‘tolleranza’ della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana. Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all’organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazioni. Le strade, la motorizzazione ecc. hanno oramai strettamente unito la periferia al Centro, abolendo ogni distanza materiale. Ma la rivoluzione del sistema d’informazioni è stata ancora più radicale e decisiva. Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza”. Tutto il resto è storia.

10 Dieci Pasolini ci vorrebbero. Ma forse nemmeno uno meritiamo. Noi che non riusciamo se non a uccidere lo stesso sempre. O a glorificare uno. Quello che ci è comodo di tempo in tempo. Di Pasolini ricorderemo perfino i dribbling, quelli fatti con la maglia del Genoa o dell’Italia, quelli in un campetto di Fregene con la maglia numero 16 e ancor più quelli in giacca, gilet e cravatta a testimonianza della foga infantile con cui si buttava nella vita. Sempre con il vantaggio di poter poi lucidamente interpretarla e raccontarla come ha fatto anche con il calcio in un saggio divertissement che sdoppia poesia e prosa dell’arte pedatoria: “Il football è un sistema di segni, cioè un linguaggio. Esso ha tutte le caratteristiche fondamentali del linguaggio per eccellenza, quello che noi ci poniamo subito come termine di confronto, ossia il linguaggio scritto-parlato”. Lucidità ma sempre calci. Comunque vigore, Fino alla fine. Vigorosamente attesa e autoavverata. Come in un martirio. Scelto.

Founder e direttore di "Perdersi a Roma" collabora con Il Messaggero, il Venerdì e Nuova Ecologia. Ha pubblicato libri di prose, poesie e narrativa di viaggio tra cui "Letti" (Voland), "AmoRomaPerché" (Electa-Mondadori), "La gioia del vagare senza meta" (Ediciclo), "Fùcino" (Il Sirente), "Il mondo nuovo" (Mimesis), "Andare per Saline" (Il Mulino) e "I segni sull'acqua" (D editore).