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Simone Weil a Roma

Questo articolo su Simone Weil a Roma era uscito nel maggio 2015 sulla “Domenica”, supplemento de “Il Sole 24 Ore”. La Weil è nella Capitale tra Musei Vaticani e Aventino.




Roma, lunedì 17 maggio 1937, esterno giorno, tardo pomeriggio: una giovane donna francese si arrampica ostinata, benché di corporatura gracile, su per il bastione dell’Aventino, dopo aver trascorso tre ore ai Musei Vaticani. Vuole assistere ai Vespri nel monastero sanbenedettino di Sant’Anselmo, ma quel giorno non sono previsti. Allora scopre un caffè dove si possono gustare gelati magnifici per una lira e sessanta. Poi prende il tram e vicino a Ponte Umberto si infila in un cinema a vedere una commediola “gradevole”, anche se ci capisce poco. E infine cerca una fiaschetteria dove mangiare pasta al sugo.

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In Italia Simone Weil – a contatto con l’arte, con il paesaggio, con la vita quotidiana della gente (“Viaggio in Italia”, a cura di D. Canciani e M.A. Vito, Castelvecchi) -, e senza dare peso alla “ossessione nazionalistica” della propaganda fascista, sembra incontrare la dimensione gioiosa, e più originaria, del suo pensiero (tanto da parlarne come del suo paese natale). L’estasi celeste – scandita in quegli anni da tre momenti di contatto misterioso con il divino – si tinge di colori terreni, e trova una abbagliante mediazione tra questo mondo e l’altro. Qui il cristianesimo le schiude la propria verità spirituale, contigua al corpo, all’incarnazione, a una percezione della bellezza e dell’ordine del mondo.

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Questa primavera italiana piena di sole ci permette di liberare Simone Weil da ogni immagine penitenziale, vagamente masochista, e soprattutto dall’ipoteca gnostica che grava su di lei almeno a partire dal saggio introduttivo di Augusto Del Noce all’Amore di Dio (che ha influenzato la sua ricezione unilaterale da parte di Cacciari, Quinzio, etc.). Non che in lei non siano presenti elementi platonici e gnostico-manichei (si interessò alla gnosi di Valentino), o una tentazione ascetica che le veniva anche dall’educazione familiare, ma il centro della sua riflessione ed esperienza è tutt’altro: questo mondo è “la nostra unica patria quaggiù” (accanto alla “patria celeste”, che però non si può amare direttamente).

Nell’attesa di Dio, relativa agli anni 1942-1943, osserva come la bellezza del mondo, assolutamente centrale nell’antichità – in India, in Cina, in Grecia, in Isaia – «è pressoché assente dalla tradizione cristiana»,a parte le mirabili eccezioni di san Francesco e san Giovanni della Croce. Eppure di tutte le vie per avvicinarci a Dio il sentimento del bello più delle altre «persiste irriducibilmente nel cuore umano come un forte movente».

(C) Wikipedia
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Questo sentimento ispira il tour italiano della Weil (due viaggi – nel ’37 e nel ’38 – per un totale di 4 mesi, a Milano, Firenze, Roma, in Umbria e poi a Venezia, escludendo singolarmente il Sud), incantata proprio dal ciclo di Giotto e dai versi di Dante su san Francesco, e poi a contatto diretto con la bellezza divina dei quadri di Masaccio, Leonardo e Giorgione, e poi con la grazia perfetta di Rossini e Donizetti, del teatro di marionette e soprattutto commossa dai “volti rudi” di uomini e donne del popolo (i contadini umbri sono «una razza così gioiosa…»). Chissà se agli italiani è rimasto qualcosa di quell’arte del vivere e di quel carattere estroverso: un operaio in treno dopo un’ora di chiacchere le propose di sposarla!




C’è il passo di una lettera all’amico Posternak (le altre sono ai famigliari) che ci porta a un altro testo weilliano pubblicato sempre da Castelvecchi: il commento della Weil al Padre nostro (stessi curatori), scritto nel 1941 a Marsiglia. Ed è lì che dichiara di non voler pregare (per esaudire desideri) ma solo: «accolgo con amicizia il tempo che viene». Acconsentire, affidarsi al destino. In un’altra lettera aveva osservato: «io non visito le città, lascio che entrino dentro di me, come per osmosi». Dove configura un “metodo” conoscitivo analogo a quello del flaneur Benjamin: non cercare ma essere trovati, non la volontà ma la contemplazione amorevole, non l’intenzione ma una forma di passività creativa.




Siamo vicini allo spazio della preghiera, che è esercizio di attenzione accogliente. Ora, il libretto è un’occasione per fare una considerazione generale sulla figura di Simone Weil. Per un verso appare lontanissima dal nostro presente, dalla modernità liquida e dalla cultura pop (che ignorò totalmente nel suo breve esilio americano). Eppure non c’è pagina dei Cahiers che non si rivolga anche al quotidiano, al nostro modo di relazionarci agli altri e di affrontare i problemi reali dell’esistenza.

Torniamo al commento al Padre nostro e in particolare al passaggio forse più ostico per il senso comune progressista: «Sia fatta la tua volontà»(quasi variante dell’amor fati stoico). Ovvero: «bisogna accettare che tutto ciò che è accaduto sia accaduto, niente di più». Sembra quasi un elogio della rassegnazione e del quietismo. Ma non è così. Proprio lei ha cercato la verità della condizione umana ostinandosi a viverne sulla pelle le contraddizioni (insegna in una scuola, lavora per un anno in fabbrica, milita nel sindacato, parte volontaria per la guerra civile spagnola, partecipa alla Resistenza).




Dunque: ognuno deve fare la propria parte e agire secondo coscienza, però senza pensare di poter controllare le cose, senza illudersi che se dipendesse dai nostri desideri la realtà sarebbe tanto migliore. E un invito a uno spostamento di prospettiva. Continueremo a protestare contro il male insito nell’esistenza (i lutti, le sventure…), ma senza pensare che perciò questa è insensata: se infatti il mondo non valesse niente «di che cosa priva il male?». E poi da un altro punto di vista sentiamo che c’è una necessità imperscrutabile che governa gli eventi, e che qualsiasi violazione dell’ordine cosmico pure obbedisce a un limite. Ognuno nel cuore percepisce sperimentalmente – e almeno in certi istanti – un accordo tra ritmo della propria vita e ritmo del mondo, un perfetto equilibrio tra l’uomo e l’universo, come a lei accade durante l’Incoronazione di Poppea al Giardino di Boboli, sotto un cielo stellato.

È saggista, critico letterario e giornalista. Nel 2007 ha pubblicato un "Dizionario della critica militante" con Giuseppe Leonelli e "Maestri irregolari. Una lezione per il nostro presente", "Meno letteratura, per favore" (2010), "Pasolini" (2012), "Poesia come esperienza. Una formazione nei versi" (2013), "Roma è una bugia" (2014), "Indaffarati" (2016).