flânerie e viaggetti

Un’altra Rome

Anticipiamo un brano dedicato a Rome in Georgia dal libro di Alberto Giuffrè “Un’altra America. Viaggio nelle città ‘italiane’ degli Stati Uniti” (Marsilio).


Rome, Georgia
Colonna sonora
Vic Chesnutt – West of Rome
R.E.M. – Murmur

Sette colli, tre fiumi, una statua (della vergogna)

I colli sono sette. I fiumi addirittura tre. Le chiese? Circa
una ogni 300 abitanti: in proporzione quasi dieci volte in
più che dalle parti del Cupolone. Il milite che di là è
ignoto, qui è celebrato con tanto di nome e cognome. Ce
ne sarebbe abbastanza per immaginare perché questo
posto sia stato chiamato Rome. In realtà si è trattato di
un caso: un nome estratto a sorte da dentro un cappello,
nel 1834, che ha avuto la meglio su “Varsavia” e
“Amburgo”.

Siamo ai piedi dei monti Appalachi, nel Nord-Ovest
della Georgia. Tutte le strade non portano affatto qui,
dove per arrivare occorre un’ora e mezza circa di macchina
da Atlanta. Se si parte da Florence, nella vicina
Alabama, il viaggio dura invece tre ore e mezza (più o
meno la stessa distanza che c’è tra Firenze e Roma). In
quest’ultimo caso bisogna attraversare un fuso orario,
sorpassare qualche carrozza amish, ignorare possibili
fiere di armi e sorridere alla vista del cartello: «Benvenuti,
siamo felici che la Georgia sia nei vostri pensieri».

È un pezzo della cosiddetta “bible belt”. Letteralmente,
“la cintura della Bibbia”. Una serie di Stati che avvolge il
Sud del Paese in cui è meglio non scherzare su due cose: il
football americano e, soprattutto, la religione. In Georgia
tutto ciò si traduce ogni quattro anni in un voto che, salvo
rare eccezioni, premia sempre i Repubblicani. A Rome, nella
vita di tutti i giorni, vuol dire ad esempio che la domenica,
fino alle 12.30, i locali non possono servire alcolici (fino
al 2013 il divieto era esteso a tutta la giornata).

Eppure l’alcol non è l’unica cosa con cui i romani americani hanno
un rapporto conflittuale. Basta chiedere di una certa statua
che ha avuto una storia piuttosto travagliata. Un regalo fatto
da Benito Mussolini nel 1929, «dalla vecchia Roma alla
nuova»: Romolo e Remo allattati dalla lupa. C’è stato un
momento in cui i cittadini hanno pensato bene di coprire i
gemelli con un pannolino. Difficile accettare la presenza di
due bambini nudi in bronzo, per di più davanti al municipio.
Dal tempo della vergogna si è passati presto a quello
della rabbia contro il nostro Paese. Cioè il 1940, «l’ora delle
decisioni irrevocabili», l’entrata in guerra dell’Italia contro
gli Alleati. Così, davanti alle minacce di piazzare la dinamite
sotto la lupa, gli amministratori si sono visti costretti a
mettere al riparo la statua in un luogo chiuso. Fino all’8
settembre 1952, giorno del definitivo ritorno in strada.

La statua di Romolo e Remo donata da Mussolini alla città di Rome (c) wikipedia
La statua di Romolo e Remo donata da Mussolini alla città di Rome (c) wikipedia

(…)

L’impero romano delle bottiglie

Rome è uno di quei posti che sembra dare ragione agli
studi che parlano della scomparsa della classe media americana.
Cioè a quel simbolo celebrato da canzoni, film,
romanzi che neanche la ripresa economica sembra aver
riportato in vita. Dai quartieri benestanti ci si può ritrovare
in un attimo in zone dove è meglio augurarsi che la
macchina non si fermi mai, soprattutto nella parte Sud.
Rome Nord, invece, è quasi un mondo a parte. Niente a
che vedere con i Parioli. Qui l’area è dominata dal Berry
College con il suo campus universitario, il più grande al
mondo.




Tra i luoghi più frequentati in città, c’è il centro commerciale:
una sfilza di insegne che va dalla libreria Barnes
& Noble a Starbucks. Siamo a poche centinaia di
metri da Broad Street, la strada principale che ospita tra
gli altri: un barber shop, un ristorante messicano chiamato
Harvest Moon, uno italiano chiamato La Scala, la gioielleria
Greene’s Jewelery. Uno dei posti più grandi è il
bar Johnny’s. La domenica pomeriggio, scattata la fascia
oraria alcolica, qualcuno inizia a prendere una birra: «Lo
so, è una legge assurda» dice Kevin, il barman. Il locale
non è ancora pieno, così lui può seguire con calma le
partite di football americano. Ne guarda tre su altrettanti
maxischermi che danno le spalle al bancone: «È appena
iniziata la stagione del fantasyfootball» racconta. Così,
anche se tifa per gli Atlanta Falcons, deve comunque
tenersi aggiornato su quello che accade sugli altri campi.
Il fantasyfootball, come lascia intuire il nome, è la versione
con la palla ovale del fantacalcio: «Faccio un campionato
insieme ai miei amici. Ogni settembre facciamo il
draft», cioè una specie di asta per accaparrarsi i giocatori.

Tra un touchdown e un time out, Kevin serve soprattutto
Coca-Cola. Niente di diverso rispetto ad altri bar,
se non fosse che la bevanda è nata proprio a due passi da
qui, ad Atlanta. E se non fosse che per la sua diffusione,
Rome ha avuto un ruolo importante. Qui infatti c’era
uno dei principali imbottigliatori: l’impero romano delle
bottiglie di Coca-Cola. Un’attività avviata all’inizio del
secolo scorso dalla famiglia Barron: «Mio padre aveva un
negozio di generi alimentari. È fallito due volte, poi ha
scoperto la Coca-Cola» dice Frank Barron, classe 1931,
che ha ereditato l’azienda e l’ha guidata per tutta la vita
prima di cederla. Ha raccontato la sua storia anche in un
libro autobiografico intitolato How about a Coke? (più o
meno: «Che ne dici di una Coca?»), pieno di aneddoti
curiosi: come quella volta che era stata cambiata la formula
della bevanda e lui e sua moglie hanno iniziato a
ricevere telefonate di insulti a casa. O ricordi tragici: come
il funerale del padre: «C’era così tanta gente che la
polizia aveva dovuto chiudere al traffico molte strade».
Proprio al padre è stato intitolato lo stadio. Un riconoscimento
che, nonostante le piccole dimensioni dell’impianto,
da queste parti ha un significato speciale.