flânerie e viaggetti

Villa Gentili Dominici

Villa Gentili Dominici a San Lorenzo. Con questo estratto da “San Lorenzo. Luoghi, Storia e Memorie. Segreti, tesori, racconti e immagini dello storico quartiere romano” a cura di Rosella De Salvia e Rolando Galluzzi, edito da Ponte Sisto ricordiamo uno dei luoghi più nascosti di Roma anche se transitato tante volte.





Villa Gentili Dominici e l’oro degli alchimisti
di Paolo Portone

C’è un luogo a Roma speciale, una sorta di ansa dove il
grande fiume della Storia ha depositato ricordi e forse tesori,
gelosamente conservati da generazioni di fidati custodi, tra il
velame di un’incuria secolare.

Villa Gentili Dominici, oggi incapsulata
tra il limitrofo quartiere di San Lorenzo, le estreme
propaggini del complesso militare di Castro Pretorio e il grigio
mastodonte della Stazione Termini, sorge sui terreni adiacenti
all’antica Porta Tiburtina (in epoca cristiana rinominata di
San Lorenzo) ove un tempo si stendevano ridenti vigneti, appartenenti
alle famiglie Polidori e Martini. Costruita nei primi
decenni del XVIII secolo (l’edificio risulta esistente nella
pianta del Nolli risalente al 1748) per volontà del marchese
Filippo Gentili su progetto dell’architetto Filippo Raguzzioni,
costituisce un unicum architettonico essendo il più grande
edificio residenziale, attualmente abitato, presente all’interno
delle mura aureliane.

Normalmente nel caotico traffico che
attanaglia le antiche mura sono in pochi ad accorgersi delle
meraviglie racchiuse al loro interno, solo nelle giornate festive,
quando la morsa si allenta e il rombo della città si attenua, i
passanti e gli automobilisti in sosta al semaforo davanti al
cancello in ferro della villa gettano lo sguardo oltre la cinta
per domandarsi spesso ad alta voce e pieni di stupore «Ma
qui ci abitano?». Sebbene Villa Gentili Dominici sia visitabile
previa opportuna autorizzazione, talvolta capita che qualche
curioso, profittando di cancelli semichiusi o della gentilezza
degli attuali ospiti del complesso, riesca ugualmente ad introdursi
nel giardino e a godere furtivamente della vista incantevole
e dell’armoniosa atmosfera che si respira.

Sostanzialmente inalterato nei secoli, a parte l’aggiunta
posteriore di una palazzina nei primi decenni del Novecento,
il complesso di Villa Gentili Dominici, passato in seguito
dalla famiglia Gentili al principe Urbano Del Drago Del Biscia
e quindi alla principessa russa Elisa Cherementeff, che
nel 1913 lo vendette a Gustavo Dominici, avo degli attuali
proprietari, si presenta ancora oggi in tutta la sua suggestiva
bellezza.





Agli occhi del visitatore si rivelano intatte le forme
leggere e regolari dell’edificio principale dalla pianta pressoché
trapezoidale, che si staglia tra alberi secolari accanto ad
un’antica torre medievale e alle vestigia dell’antica Porta Tiburtina
e dell’Acquedotto Felice.

Al suo interno si ammirano piccoli tesori come il ninfeo
scavato nelle mura aureliane, che accoglie una statua di Ercole
di squisita fattura, i raffinati stucchi che lo decorano e
gli incantevoli giardini su cui si affaccia il muscoloso semidio.

Attualmente essi si suddividono in due zone: la prima, padronale,
ubicata più in alto rispetto all’odierno piano di calpestio,
dove giganteggiano pini secolari che affondano le radici
in singolari aiuole formate da massi tufacei circondate
da piante di limone e di arancio, di alloro e di ligustro, di
gelsomino e di glicine che in primavera inondano l’adiacente
Piazzale Sisto V di un inebriante profumo che stempera un
poco i mefitici miasmi del traffico quotidiano.

A completare la visione di questo eden in miniatura
è un romantico ponticello che si affaccia sull’entrata della Villa e l’ingresso in
blocchi di tufo irregolare della bizzarra grotta situata alla
base della facciata principale dell’edificio, sorta di antro
della Sibilla che sembra introdurre direttamente nel cuore
dell’antico complesso.

Al di sopra, visibile solo in rare occasioni, è il secondo
giardino, pensile, realizzato all’interno del camminamento di
ronda di un tratto delle mura aureliane, magnificamente adornato
da rose di ogni specie.

A questi tesori inaspettati ma godibili anche al curioso di
passaggio se ne aggiungono degli altri, più nascosti che abbisognano
di attenzione e soprattutto di silenzio per essere goduti,
come il canto delle miriadi di uccelli che hanno eletto a
loro dimora insieme agli alberi ogni altro anfratto della villa,
o i concerti gatteschi che la nutrita colonia felina ospitata
nelle mura si degna di concedere agli abitanti del complesso,
in specie nella stagione degli amori.

san lo

Il rumore del vento che accarezza le pietre levigate dal
tempo, il lento gocciolare delle rotte cimase, il cigolio dei
ferri arrugginiti che spuntano dalle mura e quel brontolio tipico
degli antichi edifici che alle fantasie più accese suggerisce
l’esistenza di presenze ataviche e incorporee, come in ogni
luogo in cui si siano conservati ricordi e memorie di un lontanissimo passato.

Ma se difficilmente si potranno trovare
prove per dimostrare l’esistenza di spettrali creature, gli attuali
proprietari non avranno alcun timore ad affermare, sulla
scorta di vecchi documenti conservati nel loro polveroso archivio,
che nel pozzo situato al di sotto del giardino, in corrispondenza
della scala d’accesso al piano nobile della villa,
si siano calati, nei primi anni del Novecento, palombari della
Regia Marina per ricercare il favoleggiato oro che, secondo
una leggenda ancora viva a quei tempi, vi avrebbero colà nascosto
gli alchimisti attivi nella non distante villa del Marchese
Savelli di Palombara, a Piazza Vittorio.

Purtroppo, quelle carte sono andate in parte rovinate per la presenza di un’altra
nutrita colonia di ospiti della Villa, notoriamente ghiotta di
consimili leccornie quanto poco interessata alla storia degli
umani. Di sicuro resta la contiguità dei terreni che univano
un tempo le vigne della Porta di San Lorenzo con gli orti e i
magnifici giardini della villa del Marchese Massimiliano Savelli
Palombara, figlio di Oddo V, nato a Roma nel 1614 e qui de-
funto nel 1685.

Villa Palombara all’Esquilino comprendeva
gran parte dell’odierna piazza Vittorio Emanuele e si estendeva
ben oltre gli attuali confini del quartiere che solo con la
costruzione della ferrovia risulteranno drasticamente separati
dal finitimo quartiere di San Lorenzo e dalle antiche mura
aureliane. Rinomata per i suoi giardini tra i più belli di Roma
nel XVII secolo, oggetto delle amorose cure del proprietario
che l’aveva abbellita di «molte figure, termini, statue, colonne,
bassirilievi», Villa Palombara si conquistò la fama di principale
luogo di incontro degli alchimisti del tempo, attratti
dalla liberalità del marchese e dalla sua passione per «l’Arte
di fare l’Oro».

Furono suoi ospiti infatti le personalità più
colte e curiose di quel tempo, Athanasius Kircher, l’astronomo
Domenico Cassini, il medico Alfonso Borelli e la regina Cristina
di Svezia, anch’ella appassionata di alchimia.
Ed è proprio agli studi e agli esperimenti che si svolsero
nel corso di quegli anni all’interno del famoso Casino della
Villa, che è forse legata la chiave per sciogliere il mistero del
tesoro di Villa Gentili Dominici. Raccontano testimoni coevi
che il Marchese avrebbe ospitato nel Casino, affinché potesse
compiervi i suoi esperimenti, un pellegrino di cui si volle mantenere
per prudenza l’anonimato.

In cambio del soggiorno e
dell’ospitalità come al solito munifica del Marchese, l’oscuro
alchimista promise che avrebbe al termine delle sue ricerche
lasciata la formula per realizzare la agognata trasmutazione
del Piombo in Oro. Si narra che dopo un’intera giornata trascorsa
dietro alambicchi e storte, il misterioso ospite, al mattino
seguente, si fosse dileguato senza lasciar alcuna traccia di sé
se non una striscia di materia congelata che si scoprì essere
«Oro perfettissimo» e una carta manoscritta recante «vari
Enigmi». Stando sempre al racconto delle fonti dell’epoca, il
Marchese volle celebrare quell’evento facendo incidere in
marmo questi «Enigmi ed Iscrizioni», che altro non sarebbero
che le «Formule» per la realizzazione dell’Oro. Una volta incisi,
i marmi furono apposti ai due principali ingressi del Casino
il Portone e la Porta sulla strada che guarda Sant’Eusebio.

Il secondo ingresso, oggi sistemato in una posizione diversa
rispetto a quella originaria, è giunto fino a noi con il nome
suggestivo di Porta magica o alchemica, singolare monumento
marmoreo della sapienza esoterica, tra i pochissimi ad esserci
pervenuti nel suo genere. Con molta probabilità la leggenda
fiorita attorno all’oscuro viandante che si aggirava per le principali
magioni signorili dell’epoca alla ricerca dell’oro alchemico,
deve aver in tempi lontani contribuito al sorgere del
consimile racconto dell’Oro celato nelle gelide acque del ruscello
che scorre sotto Villa Gentili Dominici e suggerito alle
autorità dei primi anni del Novecento di sovvenzionare la
piccola spedizione di palombari.




Forse il segreto resterà per sempre custodito tra i cimeli
del polveroso archivio Dominici o nel ventre umido della
loro residenza, o forse il vero tesoro risiede nell’interiorità
di ciascun individuo come recita il più celebre tra gli acronimi
alchimistici V I T R I O L (Visita Interiora Terrae Rectificando
Invenies Occultum Lapidem (Veram Medicinam),
che tradotto suona «Visita l’interno della terra, e rettificando
troverai la pietra nascosta (che è la vera medicina)».

Ossia,solo mediante la trasmutazione della materia vile, quella
grossolana e greve del corpo (il Piombo), nell’Oro, cioè
nelle facoltà umane divinizzate, si rende possibile la reintegrazione
dell’uomo nel cosmo ad un diverso grado di consapevolezza
interiore. La realizzazione insomma delle Nozze
alchemiche, il matrimonio di Re e Regina, l’unione di Acqua
e Fuoco, all’origine dell’Acqua ardente, uno stato modificato
della coscienza in cui «materia più grave e materia più sottile
sono prese nell’individuo da uno stato di magnetismo così
profondo, che comincia prima l’intuizione e poi la sensazione
di un mondo che non è umano, ma che nell’ipersensibilità
di uno stato d’essere speciale attinge ad una fonte
umana» (Giuliano Kremmerz, La Scienza dei Magi, Roma 1975, p.326).