al vivo

Spazzare un pavimento d’asfalto

Ecco una nuova tappa del mio diario da volontaria Baobab.




È domenica mattina sul presto, per strada non incontro quasi nessuno forse perché sono fuori dal Girone turistico. C’è molto silenzio forse solo perché il traffico tace. Arrivo in via Cupa. Davanti al Baobab sgomberato da novembre scorso.

Una fila ordinata di tende da campeggio una dietro l’altra. Tende sull’asfalto… l’effetto è straniante. Perché ce le immaginiamo, di solito, nel verde. In montagna come al mare. Il contesto in cui la memoria ce le fa rivedere è sempre un contesto vacanziero e spensierato.

È la prima volta che vengo a dare una mano. Alcuni dei migranti sono svegli e siedono su panchine di fortuna sempre al bordo della strada. Sempre attenti alle (seppur poche) macchine che passano. C’è anche un bambino piccolo ma per lui e la sua mamma verrà immediatamente attivata la ricerca di un posto letto.

Gli altri volontari mi sorridono e mi spiegano che la prima cosa da fare è occuparsi della colazione. Uno di loro è arrivato con il bagagliaio della macchina carico di cibo. Latte uht, biscotti, scatolame, succhi di frutta. È il risultato di una raccolta organizzata in un supermercato. Scarichiamo solo una piccola parte di quel tesoro. C’è solo un armadio da esterni in cui stoccare cibo, fazzoletti, dentifrici, varechina etc. E non c’è un frigo naturalmente, perché siamo sulla strada.

Mi posiziono sotto il gazebo e sono addetta alla distribuzione di biscotti, insieme all’altro volontario. Cerco di essere veloce ma sono ancora un po’ impacciata… vedo una nuvola di mani in attesa. Sorrido ad ognuno ma non tutti mi guardano, forse perché non mi conoscono. Poi è il momento del latte. Ad ognuno allungo un bicchiere di plastica dicendo “Bicchiere”! E presto cominciano a ripetere anche loro “Bicchiere”! “Bicchiere”! “Bicchiere”! E finalmente alcuni sorridono.

Una cosa a cui pensare è che ci sia sempre acqua da bere. Ci sono due taniche che vengono a turni riempite da loro alla più vicina fontanella (benedetti nasoni romani). L’acqua serve non solo per bere ma anche per lavare mani, viso e denti. Cerco di ricordarmi l’ultima volta in cui mi sono lavata così, versandomi acqua addosso da un bicchiere. Forse una volta in cui il servizio idrico era interrotto per lavori, anni e anni fa.

Intanto arrivano sacchi con vestiti usati che comuni cittadini ogni tanto vengono a lasciare. Con gli altri volontari cominciamo il processo di selezione. Alcune cose sono estremamente sensate: per esempio polo e magliette di cotone, calzini e giacche per il freddo della sera. Ma non tutto quello che troviamo sembra essere adatto al contesto. In un sacco ci sono scarpe con tacchi altissimi, abiti ricoperti di paillettes, maglioni di lana pesante. Mi ricordo di quando mia sorella, volontaria a L’Aquila dopo il terremoto, nel gelo di quell’aprile trovò in un pacco, arrivato da chissà dove, shorts e sandali con la zeppa.

Comunque, distribuiamo quello che c’è. Sono quasi tutti giovani uomini. Le giovani donne sono poche. Forse sono io che ne vedo poche perché rimangono per lo più nelle tende. Ma la maggior parte delle cose che abbiamo è, in realtà, da donna. Alcuni, rassegnati, prendono dal reparto femminile. Molti indossano ciabatte o infradito di plastica. Si affollano intorno a noi chiedendo “shoes” da uomo, ma non ne abbiamo a sufficienza per tutti. Due ragazzi arrivano in quel momento per donare altri vestiti e altre scarpe. Meno male! Ma comunque non bastano per tutti.

Insieme, migranti e volontari, spazziamo la strada. Spazziamo questo pavimento d’asfalto come fosse il pavimento di una casa. Cerchiamo di essere precisi per non lasciare nemmeno una carta a terra. C’è un volontario che parla la loro lingua e sento le loro voci. Io tento con l’inglese ma quasi non funziona. Ed è tutto un comunicare a gesti. Intanto il sole comincia a scottare. Chi ha un telefono mette un po’ di musica che seppur a volume basso,quasi sussurrato, riesco ad apprezzare. È la loro musica e mi dà serenità sentirla. Come fosse un appiglio di normalità. Ma questo è quello che penso io, quello che pensano i migranti purtroppo non lo so.




Nel frattempo arrivano altri volontari. Sono solo di passaggio ma alla fine si fermano e rimangono pronti a scendere in campo per il pranzo. Arrivano altre due volontarie armate di un pentolone di pasta enorme e di insalata. Un locale dei dintorni ha donato il pane. Cominciamo una rapidissima ma gioiosa catena di montaggio con i piatti di plastica: io metto la pasta e altri due volontari mettono insalata pane e forchettina. Altri due volontari aiutano a distribuire i piatti e del disinfettante per il classico lavaggio delle mani prima del pranzo. In un attimo realizzo quanti esseri umani affamati ho di fronte, in fila, sotto il sole cocente. Quante persone ci sono… avevo sottostimato il numero.

Sono le 14. Per oggi si conclude la mia Baobab experience. Altri volontari restano perché c’è ancora da fare, c’è sempre qualcosa che si può ancora fare.
Mi allontano sotto il sole delle due che infuoca l’asfalto, cammino alla ricerca istintiva di un po’ d’ombra.

Laureata in storia a Bologna con tesi sul femminismo è insegnante e ricercatrice indipendente ed esperta di studi di genere.