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Addio, platani!

Addio, platani! La fine degli alberi più romani (insieme ai o poco meno dei pini mediterranei) in una proscrizione che sa di definitività. I versi di Adam Zagajewski per dirlo, una pagina di Giacomo Debenedetti per un triste parallelo.

C’è un’attesa a marzo, quella che racconta Adam Zagajewski nei suoi versi, che c’illudono di un inizio quando invece la fine è segnata. Con una croce rossa, neppure tanto al merito. Ecco i versi del poeta polacco: “Giorni di marzo, quando gli alberi sono ancora spogli; i platani aspettano/ pazienti la verde fiamma delle foglie”.

Questi versi, da “Roma, città aperta” in “Dalla vita degli oggetti. Poesie 1983-2005” (un’autoantologia uscita qualche anno fa per Adelphi), non raccolgono la disattesa fiamma verde per quegli spogli platani che attendono invece la proscrizione della segheria, un taglio netto. E prima una X di vernice che li segna alla fine, lasciando la traccia infinita di un tronco lì a mezzo del marciapiede (magari ad altezza bambino e senza la minima preoccupazione per i non vedenti) mentre sotto continua la festa spenta delle radici. Inquantificabile. Irredimibile, anche se interrotta di vita. Zagajewski è quello che ha scritto versi definitivi sulla sconfitta: “Davvero sappiamo vivere solo dopo la sconfitta,/ le amicizie si fanno più profonde,/ l’amore solleva attento il capo./ Perfino le cose diventano pure./ I rondoni danzano nell’aria,/ a loro agio nell’abisso./ Tremano le foglie dei pioppi,/ solo il vento è immoto” (“La sconfitta”).

zagae

Qualche volta agli oggetti tocca una sorte peggiore di quella delle persone. Qualche volta con un riguardo maggiore.

C’è una pagina nel libro di Giacomo Debenedetti “16 ottobre 1943” (Einaudi), qualche giorno fa più volte oggetto di ricordi e menzioni d’anniversario, che ha la forza del martirio paradossale. E’ quella in cui si scelgono i libri per una deportazione forse più riguardosa, forse meno dolorosa di quella che toccherà agli umani qualche giorno dopo: “Una strana figura, sulla quale si vorrebbero avere più ampi ragguagli, appare l’11 ottobre nei locali della Comunità. Accompagnato anche lui da una scorta di SS, al vederlo si direbbe un ufficiale tedesco come tutti gli altri, con quel più di arroganza che gli dà l’appartenere a una ‘specialità’ privilegiata e tristemente famosa. Tutto divisa, anche lui, dalla testa ai piedi: quella divisa attillata, di un’eleganza schizzinosa, astratta e implacabile, che inguaina la persona, il fisico ma anche soprattutto il morale, con un ermetismo di chiusura-lampo. (…) Mentre i suoi uomini cominciano a buttare all’aria la biblioteca del Collegio Rabbinico e quella della Comunità, l’ufficiale con mani caute e meticolose, da ricamatrice di fino, palpa, sfiora, carezza papiri e incunaboli, sfoglia manoscritti e rare edizioni, scartabella codici membranacei e palinsesti. La varia attenzione del tocco, la diversa cautela del gesto sono subito proporzionate al pregio dei volumi. Quelle opere, per la maggior parte, sono scritte in remoti alfabeti. Ma ad apertura di pagina, l’occhio dell’ufficiale si fissa e si illumina, come succede a certi lettori particolarmente assistiti, che subito sanno trovare il punto sperato, lo sguardo rivelatore. Tra quelle mani signorili, come sottoposti a una tortura acuta e incruenta, di un sottilissimo sadismo, i libri hanno parlato. Più tardi si seppe che l’ufficiale delle SS era un egregio cultore di paleografia e filologia semitica”.

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Gli alberi, la carta. La sconfitta della vita.

Così prosegue Debenedetti: “La Biblioteca del Collegio rabbinico di Roma, e più ancora quella della Comunità, contenevano insigni raccolte ed esemplari di eccezione, alcuni dei quali unici. Una completa esplorazione e un catalogo non erano ancora stati fatti: forse avrebbero rivelato altri tesori. Per quel che ci consta, vi erano custoditi documenti copiosissimi e cronache, manoscritte e a stampa, della diaspora nel bacino mediterraneo, oltre tutte le fonti autentiche di tutta la storia, dalle origini, degli ebrei di Roma, i più vicini e diretti discendenti dell’antico giudaismo. Profili ancora ignoti, da intentate prospettive, della Roma dei cesari, degli Imperatori e dei papi si nascondevano sotto quelle scritture. E generazioni che parevano passate su questa terra veramente come la schiatta delle foglie, attendevano dal fondo di quelle carte che qualcuno le facesse parlare. Un colpo secco della chiusura-lampo, e la divisa ha rinserrato il semitologo, che è ridivenuto un ufficiale delle SS. Ordina: se qualcuno tocca, o nasconde, o asporta uno solo di questi libri, sarà passato per le armi, secondo la legge di guerra tedesca. Se ne va. I suoi tacchi scandiscono gli scalini. Poco dopo, sulla linea tranviaria della Circolare Nera, giungono tre carrozzoni merci. Le SS vi caricano le due biblioteche. I carrozzoni ripartono. Libri, manoscritti, codici e pergamene hanno preso la strada di Monaco di Baviera”.

Anche in questi giorni di ottobre ci si appresta a non più rivedere quel bianco stecchito del platano. Che attende un taglio. La conferma di una fine che lascerà a futura memoria un intreccio sotterraneo di legami. E il cerchio centenario di un’evidenza. Così come nelle epoche è sparito non senza violenza il lucore della carta e il nero che recava scritto sopra.

Founder e direttore di "Perdersi a Roma" collabora con Il Messaggero, il Venerdì e Nuova Ecologia. Ha pubblicato libri di prose, poesie e narrativa di viaggio tra cui "Letti" (Voland), "AmoRomaPerché" (Electa-Mondadori), "La gioia del vagare senza meta" (Ediciclo), "Fùcino" (Il Sirente), "Il mondo nuovo" (Mimesis), "Andare per Saline" (Il Mulino) e "I segni sull'acqua" (D editore).