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Dammi la mano e sorridi

La nostra strenna di Natale. Una lettera famigliare, nella tradizione classica del genere, dedicata da me anni fa in una forma privata a mia madre. Fu scritta nel 2005 (e letta a lei nel Natale 2007, due mesi prima che morisse) ma nel corso degli anni è diventata un testo autonomo e meno privato anche forse con una sua impudicizia. Voluta, resistente, che pesa un modo di vedere la vita e i sentimenti con coraggio e una buona dose di civismo. Di cui i sentimenti sembrerebbero naturalmente privi. E non lo sono. Si intitola “Dammi la mano e sorridi” che allude come si sa a una canzone. Nella lettera in qualche modo si parla di sentimenti ma anche dell’atto del cammimare, della malattia e della morte, attesa e disattesa. E di Roma. Qui estraiamo una parte dedicata, appunto, a Roma. Il resto lo potrete leggere qui.





A Roma stanno togliendo i sampietrini. Non so in quali strade li ricordate, dove pensereste di trovarli, dove vi sorprendereste di non vederli più. Roma è da sempre un reticolato di pietra. Pur nella solerte levata di efficienza sarà difficile fare vuoto di tutta questa selce. I passi rimarranno la fluttuazione scomposta di questa posa ondulata. Ma alcune strade perderanno quell’andare traballante delle ruote, quei salti secchi a cui vengono costretti gli ammortizzatori di auto e motorini. Ricordi, papà, quando la macchina faceva le vie del centro? Noi iniziavamo a rimbalzare da una parte all’altra del sedile posteriore, io rigorosamente a sinistra e Gianfranco a destra, guai a cambiare posto, per non tradire gli ordini impliciti e severi dei ruoli della fratellanza, amplificando gli scossoni per darci testate o gomitate. La macchina non farà più quei balzi che faceva con noi piccoli, seduti tutti e due dietro come in un taxi pilotato da te. Avevano ammortizzatori duri e sedili larghi e senza baricentro le macchine della nostra infanzia, divani scivolosi in cui era facile nuotare, saltare, ondeggiare. L’angolo fra la seduta e lo schienale era la riproposizione di una perpendicolare perfetta. Sedevamo su un piccolo letto. Gli ammortizzatori forse non erano granché e la nostra vecchia 124 bianca, tra echi di ferraglia, pareva che stesse per svitarsi da un momento all’altro. Io, dentro di me, immaginavo che al successivo passaggio su quegli avvallamenti della pietra saremmo rimasti al nudo degli sportelli a continuare a procedere sempre più essenziali come una di quelle primordiali macchine dei Flinstones.

Cambieranno le nostre vite. Il dondolio che addormenta del passeggino nell’infanzia, l’impuntarsi delle suole distratte e l’incastrarsi dei carrelli della spesa. Il calore dei piedi d’agosto sulla crema dell’asfalto o sulla pietra focaia, l’odore diverso della pioggia, la scivolosità sotto le suole, i copertoni dell’auto e della moto e il loro rollio crepitante. Le vibrazioni, i passi indecisi e brevi che conservano l’equilibrio e le ampie falcate e la corsa arrembante e sudata all’autobus come fosse l’ultimo che mai potremmo prendere e le imprecazioni alle porte chiuseci in faccia da qualche autista inflessibile o istigatore. I primi effetti della perversione che scatena Roma nei suoi abitanti sono quelli del traffico. La distribuzione della rabbia è diseguale: dipende dai temperamenti e dai mestieri. I tassinari, gli autisti d’autobus, i rappresentanti, gli impiegati. È come un declinare in base all’uso e all’urgenza della mobilità fino ai pedoni che rappresentano la casta delle vittime. Ma ognuno è vittima di un altro: un motorino più lento di uno più veloce, una macchina in fila ordinata di una guidata con più foga e più malizia. L’unità che misura questa tensione di forze è la rabbia e senza accorgercene ne siamo i soldati più fedeli.

Alla pietra segue il bitume in una successione repertoriale che forse segnerà un’epoca archeologica, la nostra. Ve la ricordate la mia passione per il catrame, l’incanto dell’odore e la malia di quelle macchine che lo producevano? Una la chiamavo “mezza balena” perché aveva metà di una bocca enorme che sputava nero sulla strada. Poi c’era la macchina che grattava l’asfalto vecchio e preparava una base tutta pettinata, una che rimescolava e tostava il catrame e infine il rullo che tutto stendeva come il mattarello di mamma che tirava la sfoglia. Vi trascinavo con la mano per rimanere e vedere ma in realtà era l’odore l’attrazione non il fare. Al limite era la nota continua del rullare che mi svuotava i pensieri, l’odore di cucinato che faceva la macchina del bitume. Sarei rimasto lì per ore, a inebriarmi di quella tostatura, a vedere glassare le vie che avremmo poi percorso e consumato.

Su molte delle strade che abbiamo fatto mano nella mano non si inciamperà più. Mamma non rimarrà più indietro incastrata col tacco, ancorata al selciato, corda tesa alla nostra mano come un giocattolo che non riesci più a trascinarti dietro. Finisce un’epoca antica che per me è l’epica vostra, di voi con noi piccoli. E con questa fine, un inizio. Quello di noi che racconteremo di quando invece dell’asfalto c’erano i sampietrini e così penseremo a voi e vi nomineremo in questo spazio comune del ricordo. Non voglio dire che stiamo invecchiando tutti ma che il tempo ci avvicina in questa sacca di giorni, ci segna tra spazi lontani in un momento unico. Le sfumature di grigio a mosaico scompaiono con una magia sostitutiva. Non sarà come quando la pioggia apre nel buio del catrame la sorpresa di uno squarcio di lucida e fosca pietra a cinque centimetri in profondità, repertorio di uno scavo casuale. Non rimarrà più nessuna traccia della colata lavica sotto i nostri piedi, nessuna permanenza di quella eruzione a incastro che fecero provetti selciaroli neppure nella forma archeologica del rilevamento a strati. Solo qualche permanenza nelle piazze pedonali che renderà i passi un museo o qualche breve via laterale lontana dai clacson. Il mondo cittadino, quello delle strade larghe sarà sempre più automobilistico e somiglierà alle piste dei circuiti. Studi di aderenza ai pneumatici sul bagnato, misture e combinazioni che rendano le strade l’avanguardia del correre in sicurezza.

È una strana sensazione che forse non conoscerete. Sarà come se in un momento tutti ci scoprissimo più vecchi in relazione a una cosa che cambia. Da questo momento saremo costretti a rammentare una data, un da quando che rimarca la nostra età, ne segna le tacche. In noi si sono incontrate due epoche e ci unisce un tempo comune, nostro e vostro, in un ricordo consonante di padri e figli, di generazioni continue. L’essere dell’era della pietra, nella forma del cubo di selce delle strade, ci trova inaspettatamente vicini e contrapposti alle ere che ci seguiranno. Siamo uniti a terra da questo legame di lava a cubetti. Non ci perderemo più in queste orme discontinue.


Il resto lo potrete leggere qui

Founder e direttore di "Perdersi a Roma" collabora con Il Messaggero, il Venerdì e Nuova Ecologia. Ha pubblicato libri di prose, poesie e narrativa di viaggio tra cui "Letti" (Voland), "AmoRomaPerché" (Electa-Mondadori), "La gioia del vagare senza meta" (Ediciclo), "Fùcino" (Il Sirente), "Il mondo nuovo" (Mimesis), "Andare per Saline" (Il Mulino) e "I segni sull'acqua" (D editore).