Di Consoli alla Certosa
Questo pezzo sulla Certosa e lo scrittore e critico Andrea Di Consoli è uscito su Il Messaggero.
La Certosa, un nome nobile, quasi fiabesco (prima si chiamava Borgo degli Angeli) è un quartiere romano la cui storia si intreccia con quella delle baraccopoli. Prima immigrati abruzzesi e marchigiani poi negli anni ’50 calabresi. Non è facile trovarlo, stretta fra stazione Casilina e Tor Pignattara.
Allo scrittore e autore di testi televisivi Andrea Di Consoli chiedo subito com’è che uno decide di abitare qui? “A un certo punto, meno di un anno fa – mi risponde lo scrittore lucano, poi immigrato nell’infanzia a Zurigo, insieme alla famiglia – nella mia vita è capitato qualcosa di difficile e doloroso. Dopo tredici anni mi sono separato dalla mia compagna. Con i nostri figli avevamo sempre abitato in via La Spezia, a San Giovanni, e dunque decidendo di andare via avevo bisogno di non stare troppo lontano, ma anche di andare in un posto più umile, scrostato, fraterno, che mi somigliasse di più. Un giorno incontro casualmente per strada dopo quasi trent’anni un mio amico lucano d’infanzia, Enzo Libonati, proprietario del caffè letterario ‘Shakespeare & Co.’ di via dei Savorgnan alla Certosa.
Gli dico che serve una casa ma non ho voglia di deprimermi con le agenzie immobiliari e dopo una settimana mi annuncia di avermi trovato una casa perfetta per me. L’ho presa a occhi chiusi!”. E’ un quartiere pasoliniano, dunque letterario, rappresentato in Ragazzi di vita e poi nel film, “Accattone” e “Mamma Roma”. Lo scrittore è celebrato in un immenso murales, che evoca anche circostanze e personaggi della sua morte.. Qui vicino c’è il ristorante Accattone, al Pigneto il bar Necci con tutte le sue foto.
Che effetto ti fa vedere il nemico dei consumi e dell’omologazione ridotto a icona commerciale e logo chic? Di Consoli fa un sospiro: “Sai, a questo punto della mia vita e della mia maturità umana mi chiedo se non ci sia della poesia anche nel commercio, in un logo, in un brand. In fondo le cose morte sopravvivono pure così. La cosa comunque non mi disturba”. Il vero interrogativo è un altro: il quartiere si presenta come un paesotto, con i suoi villini colorati e orticelli (un abusivismo edilizio di massa che oggi ne definisce la accattivante fisionomia), accanto a due o tre “grattacieli” (per dire edifici un po’ fuori misura), solo in parte gentrizzato. I vecchi abitanti convivono con nuovi gruppi etnici e comunità gay e enoteche con librerie.
Si può considerare un laboratorio sociale? In ciò risiede la sua anima? Di Consoli replica con entusiasmo: “Sì, è un quartiere che andrebbe preso a esempio. Qui intellettuali, disoccupati, impiegati e commercianti stranieri vivono in un’armonia davvero speciale. Anche, secondo me, grazie alla presenza imponente di scrittori, registi, giornalisti, artisti, che ovviamente apportano un punto di vista dolce, tollerante, rispettoso allo stile generale del quartiere. Certe sere percorro la strada che da via dei Savorgnan conduce a via di Tor Pignattara, e la sensazione che provo è di un luogo privo di ferocia e di rancore. Forse perché gli intellettuali sono i migranti stanziali di un Paese, e con il loro sguardo fanno sentire meno sperduti coloro che vengono da lontano”.
Qual è allora il vero personaggio-simbolo del quartiere? Per Di Consoli proprio Enzo Libonati della “Shakespeare & Co.”, il suo Virgilio che qui lo ha introdotto. La Certosa in qualche modo si identifica con lui. Nel suo locale infatti trovi lucani, calabresi, francesi, americani, polacchi. Trovi di tutto. “Dentro – sottolinea Di Consoli – puoi crederti a Marsiglia, a Beirut, a Eboli. Oppure in un paese lucano, perché c’è anche il biliardino. Lui aggrega, smista, incrocia storie, fa presentazioni di libri. Insomma, ha dato una casa a tutti noi che siamo un po’ smarriti e curiosi del mondo. La cosa più bella è quando la sera porto i miei figli nel suo locale. Li tratta come fossero suoi nipoti. Andare a giocare a biliardino la sera è un rito che ha aiutato molto la tenuta della nostra famiglia dopo il momento doloroso della separazione”.