flânerie e viaggetti

Erba e città, una gita a Cinquina

“Là dove c’era l’erba ora c’è una città” sempre lì dove c’era “gente tranquilla che lavorava”. Non siamo nella via Gluck di Celentano (arcinoto brano scritto dal Molleggiato con Miki Del Prete e Luciano Beretta del Clan nel 1966, antesignano dell’ecologia italica) ma nella attuale (borgata) Cinquina.

Il “qui una volta era tutto prato” va bene quasi anche per oggi in cui si costruisce a tamburella appena dopo ma comunque senza poter occupare tutto il suolo. Fino alle propaggini protette dell’area sorvegliata e protetta della Marcigliana. Ci concediamo allora solo una piccola operazione restyling sostituendo la parola borgata con sobborgo per segmentare quel quadrilatero che va precisamente sotto il nome Cinquina. Un po’ perché inadeguata ai tempi e non più adatta a quelle marchiane partizioni classiste di una volta ora tutte risquadernate in peggiori classi e sottoclassi ma tutte contigue in un sogno pericoloso che ricorda il Teorema pasoliniano. Apparentemente felice. Il sogno degli amanti dell’induzione al consumo più sfrenato.



A (La) Cinquina ci si arriva solcando la nuova viabilità di via della Bufalotta, tutto il complesso disegno del GRA altezza Porta di Roma dove l’altra linea di edilizia più intensa marca il verde da presso. Arrivarci così, dopo la ridda di centri commerciali, e palazzoni appunto,dovrà pure farvi lo stesso effetto che ha fatto a me. E basta! Finalmente eccomi in Italia, anzi a Roma, meglio nella old Campagna Romana. Finché dura, perché da queste parti stanno costruendo con un’ansia abitativa – e nessuna cautela infrastrutturale, viaria etc. – da malati di mente. Ecco: i nostri specialisti della psiche dovrebbero analizzare questa compulsività architettonica. Trattarla alla stregua di un qualsiasi disturbo della personalità. Anche se le personalità che mettono insieme piani regolatori un po’ ridicoli forse sono mossi più che da ansia costruttiva dal vil attaccamento alla pecunia. Non facciamo nomi? Non li facciamo. Tanto si sanno.  

 

Borgata e collina sono, poi, due parole che qualsiasi insiemistica dovrebbe separare. E infatti questo quartiere sta in cima a un belvedere che uno di questi costruttori se lo avesse trovato libero si sarebbe divertito a puntinare di villette a schiera. E invece Cinquina è presidiata da famiglie che si sono fatte le loro case mattone su mattone, blocchetto di tufo su blocchetto di tufo, come venivano. E, in qualche caso, ancora devono finirle e le vedi ancora lì in fieri come una grande opera di teatro d’avanguardia. L’attenzione di una scuola e di un giardino pubblico in rifacimento. La via delle vie, una specie di Panoramica, è via Feo Belcari. Chi era costui? Un poeta fiorentino quattrocentesco a carattere religioso. Ah wikipedia!

 

Un’altra via per accedere alla Cinquina è invece via Natalino Sapegno (da questa parte la letteratura ha un suo bel palmares: Elias Canetti e Carlo Bernari e ancora e ancora) che molti di noi ricorderanno di aver portato sottobraccio in previsione di italiano alla prima ora. “Il Sapegno” (storia della letteratura italiana) come si diceva passandoselo di generazione in generazione, con copertine sempre diverse e quella prosa un po’ poetica e tutta tirata dritta tra storia e marxismo (ma lo storico letterario fu uno dei fuoriusciti PCI post 1956), prima che assurgessero alla moda i libri pieni di box, link e ipertesti. In parallelo via Arturo Onofri per dire che la letteratura davvero è di casa da queste parti. Ma torniamo a via Belcari che sale lasciandosi al fianco una fila di pini marittimi e tanta campagna. Speriamo che rimanga tale. Il giro completo ci porta sino al limitare di altra campagna annunciata da stalle. Ed ecco completato l’ideale giro di case di Cinquina: un agglomerato a prova di nuove costruzioni. O così spereranno gli abitanti. Alla fine venirci sembra sia stata davvero una gita. Anche se passarci in mezzo non mi ha offerto – forse per distrazione mia – il conforto di un bar. Ed è stato diffcile individuare un posto da consigliare per la cena o il pranzo.

 

Dopo l’invito a Cinquina un invito alla lettura. Consueto. Quello di una Roma in cui anche in quel caso era tutto prato. Da Cinquina fino all’inizio della città. Almeno da questa direzione. Porta Pia: lì iniziava tutto allora. Nel racconto di Edmondo De Amicis – l’indimenticato autore di Cuore (per qualcuno di Amore e ginnastica) – espunto dalla sue memorie e intitolato Roma (ECRA, corredato dalle tavole del bravissimo disegnatore cartoonista Simone Massi, uno da tenere d’occhio) la città arriva alla fine della Nomentana allora di muri e poderi. Siamo al 21 settembre 1870 e alle imprese dell’ingresso dell’esercito “italiano” nella città. Non è il caso di essere nostalgici ma concreti e di sognare che un po’ di prato rimanga attorno a Cinquina come una benedizione di cui nessuno dopo di noi possa dire, con il cuore infranto: anche qui una volta era tutto prato.

 

Da fare
Sembrerà un po’ una provocazione ma il Centro di Porte di Roma offre quello che spesso quest’area non offre.
Mi hanno parlato bene del ristorante di pesce Che Te Ne sa – Via della Bufalotta, 891 – tel. 06 87140320

Founder e direttore di "Perdersi a Roma" collabora con Il Messaggero, il Venerdì e Nuova Ecologia. Ha pubblicato libri di prose, poesie e narrativa di viaggio tra cui "Letti" (Voland), "AmoRomaPerché" (Electa-Mondadori), "La gioia del vagare senza meta" (Ediciclo), "Fùcino" (Il Sirente), "Il mondo nuovo" (Mimesis), "Andare per Saline" (Il Mulino) e "I segni sull'acqua" (D editore).