Estera, in morte
Radio Wilimowski di Miljenko Jergović che esce per Bottega Errante Edizioni nella traduzione di Elisa Copetti, è un gioiello di scrittura. Ve ne offriamo un saggio: la storia di Estera.
Quando nel giugno del 1938 un professore in pensione di Cracovia parte alla volta dell’Adriatico con il figlio gravemente malato, sa soltanto che deve raggiungere un misterioso hotel nell’entroterra di Crikvenica, per cercarvi la pace. Sono i giorni del Campionato mondiale di calcio. Tutti sono incollati alla radio: la voce commossa dello speaker racconta la magica partita in cui Ernest Wilimowski diventa leggenda. Questo il plot. Quella che segue è la storia di Estera. Una prova di una scrittura efficacemente mitopoietica, la conferma che Miljenko Jergović sa dove mettere le parole per raccontare. Sa come creare ascolto attraversando il piccolo e suscitando il forte. Non fatevi scappare questo libro.
Si era sposato in età matura, quando lui stesso era convinto che sarebbe rimasto celibe, con lei, una bellezza galiziana che aveva quasi rapito ai genitori, portandola via da Czerniowce, con la promessa che ne avrebbe avuto cura come del più grande tesoro della sua vita.
Si era innamorato repentinamente, durante un viaggio più di lavoro che di piacere, in un’età in cui un uomo si riappacifica col fatto di aver mancato l’amore della vita e in cui impara a vivere solo, seguito da tutti i pregiudizi
sociali e le maldicenze che seguono gli uomini soli.
Doveva essersi allentata la guardia che lo manteneva sano di mente e sufficientemente distante dalle altre persone, specie dalle donne, e in un attimo, in tre giorni passati in Bucovina, l’aristocratico professore di Cracovia, ben consapevole di tutte le conseguenze e degli effetti sulla sua discendenza, era mutato in un funambolo che, al cospetto di una città pazza, pronta a ogni farsa, dove ciascuno sa tutto dell’altro, sebbene tutti parlino con un’unica voce ma in una decina di lingue, aveva camminato sul filo più sottile sopra l’abisso, incurante del fatto di poter perdere la testa.
Per Estera, una diciassettenne, fu pronto a rinunciare alla fede, e a tutto ciò – dalla ricchezza materiale alla reputazione personale – che quella fede gli garantiva e assicurava, e ad accogliere l’ebraismo in tarda età e in tempi malvagi per il mondo; i genitori di lei però non vollero accettarlo, anzi dopo lunghe discussioni, lacrime e minacce, quando compresero che non l’avrebbero potuta trattenere, lasciarono andare la figlia per la sua strada insieme a quello straniero, come se in quel modo avessero pagato il prezzo della sua esagerata bellezza.
Non lo accolsero come genero – in tutto pari a loro – ma semplicemente gli permisero di portarla nel suo mondo, sebbene sapessero che agendo in quella maniera non l’avrebbero mai più rivista, né avrebbero più saputo nulla di lei.
Lui promise loro, sebbene non gli avessero chiesto alcuna promessa, né probabilmente gli credessero affatto, che l’avrebbe protetta da ogni male esistente al mondo; dieci anni più tardi l’avrebbe uccisa una comune zecca del parco ai piedi del Wawel. Fu malata per poco, morì dolorosamente, gridando in preda a una demenza provocata da un’infiammazione cerebrale.
In punto di morte, per due lunghi giorni, parlava in una lingua sconosciuta. Lui fece chiamare i rabbini di Kazimierz perché gli traducessero le sue parole, ma quelli scrollavano il capo e confermavano che la lingua nella quale Estera aveva cominciato a parlare non era né ebraico, né armeno, neppure una delle lingue che poteva aver sentito a Czerniowce.
La lingua dei morti è sempre sconosciuta ai vivi e sempre diversa. Per ognuno particolare. Questo, presumibilmente, aveva detto il rabbino allo spaventato Tomasz, ma egli non poteva più comprenderlo, né ricordare esattamente.
Lei infine si era buttata sul letto piangendo e si era strappata la camicia di dosso, quindi col petto nudo d’improvviso era salita in cielo.