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Gazmend Kapllani

Gazmend Kapllani, con “Breve diario di frontiera” (uscito per Del Vecchio nella traduzione di Maurizio De Rosa), ha scritto “un brillante, ironico e divertente romanzo sui migranti” come ha sottolineato “The Times”. Un esilarante reportage narrativo di un albanese sulla via verso la Grecia. Ma un diario che potrebbe essere stato scritto da qualsiasi migrante di qualsiasi viaggio-fuga. Lo abbiamo incontrato nel suo recente viaggio a Roma per parlare di immigrati, frontiere e futuro dell’Europa.





Lei ha scritto un libro sulle migrazioni e sui migranti, un tema di grande attualità che ha visto l’Italia ricordare, fingere di ricordare o non ricordare la sua storia di fuga verso l’estero. Una fuga in qualche forma ancora in corsa eppure il tema ha scaldato le polveri dei “contrari”. La memoria è così breve?

Noi esseri umani abbiamo una memoria selettiva oppure abbiamo l’inclinazione a ricordarci solo delle nostre sofferenze, non delle sofferenze altrui. Con l’emigrazione ciò nonostante noto spesso che molti si scordano financo delle loro stesse sofferenze. Io ho studiato questo fenomeno in Grecia. E mi sono fatto l’idea che accada principalmente perché non si vuole vedere la somiglianza tra gli immigrati di ieri (noi) e gli immigrati di oggi (loro). Per tenere lontano da noi il senso di colpa che loro ci suscitano. A Boston, dove vivo, vedo come sia gli immigrati di ieri sia gli immigrati di oggi temano altri immigrati e rifugiati. Ho sentito perfino di immigrati albanesi in America che hanno votato per Trump, ovvero per uno che vuole costruire muri e fare degli immigrati dei capri espiatori.

kapllani

Ma oltre al fattore umano c’è una dimensione politica e culturale che costituisce la nevrosi europea: noi europei, chi piu chi meno, ci rifiutamo con una caparbietà da antologia di vedere noi stessi oppure il nostro continente come un continente di immigrati e di rifugiati. E per questo che in Europa, patria dei musei, non ci sono musei di immigrazione. E’ per questo che a scuola non si insegna la storia del immigrazione, di noi stessi oppure degli altri. La reazione dell’estrema destra in Europa si basa su questo rifiuto di cononscersi come un continente di immigrazione. Le radici sono profonde, risalgono agli anni ’20, quando le ideologie della purezza e della superiorità culturale e nazionale hanno prevalso dappertutto in Europa. E sappiamo già dove ci hanno portato quelle teorie.

Come scrittore mi occupo d’immigrazione non solo perché io stesso sono un immigrato ma perché le società umane non potrebbero nemmeno essere concepite senza quest’enorme avventura, parte stessa dell’esistenza dell’essere umano su questo pianeta, che chiamiamo immigrazione. E’ come voler capire l’evoluzione della specie umana senza la teoria di Darwin.




Lei scrive nella premessa al suo “Breve diario di frontiera”: “Quando vedo una frontiera provo la smania di oltrepassarla, quella invece mi rivolge quasi sempre uno sguardo ostile o sospettoso”. C’è una frontiera metaforica non reale che non vuole o non riesce ad attraversare?

C’è una frontiera che nessuno di noi umani può oltrepassare: quella di essere mortali. Metaforicamente, siamo un po’ tutti immigrati, con un permesso di soggiorno temporaneo per questa terra…

L’Italia ha una frontiera complessa. In gran parte marina. Ciò fa sì che sia quasi una mano tesa a chi arriva. In parte la tende, in parte però non riesce ad accogliere del tutto chi arriva.

Italia, Grecia ed in parte Spagna, il Sud d’Europa, sono diventati e rimarranno per molto tempo le porte del Continente. Il Mediterraneo è stato sempre così, un crocevia. Non per caso, quando Shakespeare aveva bisogno di un’atmosfera “multiculturale” per le sue opere, che fossero tragedie o commedie, sceglieva il Mediterraneo: Venezia, Cipro etc. La nostra tradizione mediterranea di crocevia di culture e di popolazioni ci ha consegnato anche questa ambiguità schizofrenica verso l’altro: lo accogliamo e lo rifiutamo nello stesso tempo. Di solito lo accogliamo quando è di passaggio e spesso lo rifiutamo, in maniera istituzionale specialmente, quando decide di rimanere per sempre.

Ma questa volta l’immigrazione nel Mediterraneo non somiglia alle precedenti. E’ sostanzialmente diversa. Siamo assistendo a degli eventi di scala globale. I vecchi confini che conoscevamo – a livello culturale, di lingua e anche di distanze geografiche – non funzionano più. Quelli che promettono di tornare indietro in un passato immaginario, di costruire muri e di ricostruire le frontiere nazionalistiche di una volta, sono profeti della disgrazia. Vogliono spingerci verso un nuovo suicidio collettivo – ma dimenticano di dire che ci siamo già suicidati due volte nel ventesimo secolo quando, alla questione dell’altro, abbiamo risposto con il ghetto, l’odio e il genocidio.

Gazmend Kapllani davanti all'obbiettivo del fotografo Rino Bianchi dalle parti di piazza Farnese.
Gazmend Kapllani davanti all’obbiettivo del fotografo Rino Bianchi dalle parti di piazza Farnese.

Siccome la sfida questa volta è globale penso che nessun paese europeo – l’Italia, la Grecia oppure la Germania che si è mostrata così generosa fino ad ora con i rifugiati – possa cavarsela da solo. L’immigrazione che viviamo è un’occasione unica per capire il nostro destino comune di europei.

Nel caso migliore ci darà quella scossa culturale che abbiamo bisogno per reinventarci in questa situazione di crisi. L’Europa è un continente estremamente ricco, con risorse umane incredibili, un continente basato sulla pluralità delle culture. Allora perché non la finiamo di aver paura della pluralità culturale? Le cose che ci mancano, a noi europei, penso siano soprattutto coordinamento e visione politica, la pazienza e il coraggio d’immaginare. Come è possibile considerare come una minaccia i rifugiati che vengono da noi solo perché ci vedono come il continente più umano e generoso? I rifugiati portano da noi, in realtà, quel sogno europeo che abbiamo perso. Questi rifugiati saranno i migliori europei di domani…




Che cosa pensa di Roma? Cosa le è rimasto più impresso della città? Ci vivrebbe?

Roma è una di quelle citta che ti costringe sempre a dire una cosa così prevedibile e così inevitabile nello stesso tempo: è una città meravigliosamente bella. Quello che mi è rimasto più impresso della mia ultima visita è una gita che ho fatto all’alba quando non c’erano ancora le folle di turisti e il traffico. Ho visto la città che si svegliava. Mi piace osservare le città quando si svegliano, penso che per questa strada si capisca il loro vero carattere. Dopo quella gita la tentazione di trovare un modo per restare a Roma e non tornare più a Boston è stata grande. Chi sa, un giorno Roma potrebbe diventare l’ultima stazione del mio viaggio da immigrato del mondo, la mia ultima illusione…

C’è un autore o un libro che le ha presentato Roma prima che poi la conoscesse e l’ha invitata a venire a conoscerla?

Ci sono diversi libri e film – specialmente film – che vedevo di nascosto in Albania, sotto la dittatura stalinista. Ma quello che mi ha fatto “conoscere” Roma è stato un album fotografico della città che mi è capitato per caso tra le mani, sempre di nascosto, perché, quando ero adolescente, libri del genere erano interdetti in Albania.

Quell’album, che presentava la Roma degli anni ’80, lo tenni per molti mesi nel mio letto e mi fece viaggiare per la città con l’immaginazione. Sono diventato una specie di “romano immaginario”. Ho imparato tutti i luoghi descritti nell’album. Così, quando poi sono venuto per la prima volta a Roma, doveva essere il 1994, la conoscevo “a memoria”. A tal punto che qualcuno, quando ha saputo che quella era la mia prima volta in città, mi ha accusato con aria infastidita di volerlo prendere in giro…

L’Albania ha rappresentato per noi italiani la prima frontiera dell’arrivo. La ricordiamo in quelle immagini fortemente evocative che hanno ispirato anche un film come “Lamerica” di Amelio. Cosa significa essere dall’altra parte di questo immaginario – che è poi il tema del suo libro?

L’Albania sotto la dittatura comunista è la storia della mia vita. Quella che mi ha reso scrittore. E’ la storia di tre generazioni di albanesi. Quell’isolamento così disumano e umiliante che ha sfiorato i limiti dell’assurdo. E’ una storia colma di dolore, perché la patria si è trasformata in una prigione cirdondata da muri che ci ha instillato il sogno di scappare.

Noi che abbiamo vissuto quel mondo di muri e frontiere micidiali abbiamo l’obbligo morale di capire e accogliere i rifugiati di oggi. Abbiamo l’obbligo morale di trasmettere la nostra storia, specialmente a coloro che dimenticano che le societa umane sono fragili e possono finire nell’abisso se seguono coloro che promettono muri e odio verso l’altro. Quella storia si deve raccontare, anche per ricordare a noi stessi che è la prima volta dopo la Prima Guerra mondiale che in Europa viviamo senza muri e senza dittature. Nonostante i problemi molto seri che abbiamo, questa di oggi è l’Europa migliore e più pacifica che abbiamo mai avuto.




Founder e direttore di "Perdersi a Roma" collabora con Il Messaggero, il Venerdì e Nuova Ecologia. Ha pubblicato libri di prose, poesie e narrativa di viaggio tra cui "Letti" (Voland), "AmoRomaPerché" (Electa-Mondadori), "La gioia del vagare senza meta" (Ediciclo), "Fùcino" (Il Sirente), "Il mondo nuovo" (Mimesis), "Andare per Saline" (Il Mulino) e "I segni sull'acqua" (D editore).