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Il centesimo giro

Eccoci giunti come tutti gli anni al Giro d’Italia. Ma stavolta siamo all’edizione numero 100. Un traguardo tondo. E io mi sto preparando al mio traguardo personale.





Mi sto preparando con questo libro di Giacomo Pellizzari (“Storia e geografia del Giro d’Italia”, UTET) dove ritrovo delle tappe imprescindibili. Le Tre Cime di Lavaredo sì ma anche la mia Roma. La Roma di Pasolini (lui è uno dei protagonisti, anno di grazia 1969, del processo zavoliano alla tappa, un modo di parlare di sport che ha fatto epoca).

Quel Pasolini che come pochi conosce l’Urbe maestosa: “I pisciatoi maleodoranti del Lungotevere e il microcosmo affascinante e criminale della stazione Termini stimolano la sua creatività; le borgate malfamate e pullulanti di ragazzi violenti lo chiamano a sé, i ruderi decadenti dei vecchi palazzi umbertini, la mole del Colosseo e le rovine a cielo aperto dei Fori Imperiali lo anestetizzano al resto del mondo. Tutta Roma lo conquista. Una scorpacciata di bellezze e di umanità varia da non uscirne vivi”. Così chiosa Pellizzari che spazia tra i luoghi pedalati con interessi non solo sportivi.




Ecco allora la Roma che dal Giro ha avuto ma non tanto e, comunque, mai quanto Milano (finale anche di questa stagione). E non si sa perché, come canta Paolo Conte (un altro che al ciclismo ha dato a parole – e note -, quanto De Gregori o di più).

Il Giro, invece si sa, è l’apoteosi dei luoghi. In genere. In qualche modo è flânerie allo stato agonistico. Si è prestato perciò al racconto degli scrittori. A Pasolini regista, ad esempio, non sfugge la fisiognomica da film di Vito Taccone, il Camoscio d’Abruzzo.

Ma il Giro lo hanno narrato penne come quelle di Vasco Pratolini e Anna Maria Ortese, Curzio Malaparte, Alfonso Gatto e Dino Buzzati. E, per venire all’oggi, c’è stata un’ottima cronaca per tappe di Fabio Genovesi. Pellizzari, invece, ricorda quando Mauro Corona ha accolto il commentatore televisivo Cassani portandoselo in “giro” per osterie. Perché la corsa rosa ha sempre un prima e un dopo la tappa. Che spesso contano altrettanto.




E, ritornando all’apoteosi dei luoghi, come non condividere questa calviniana città invisibile rappresentata dal Giro come corpo unico di case, quella che fa dire a Buzzati della corsa a tappe: “una delle ultime città della fantasia, un caposaldo del romanticismo, assediato dalle squallide forze del progresso, e che rifiuta di arrendersi”? Insomma il Giro è un luogo in sé. Non un nonluogo, una totalità di spazio.

Questa edizione per venire al tempo, invece, sarà ricordata come quella dell’anno di Scarponi. Un titolo di sangue, senza eritropoietina. Un’altra pagina, ennesima, listata a lutto delle vicende a pedali. Da Coppi a Pantani, con dolori diversi.

Al ciclista marchigiano, recentemente morto sul palcoscenico in quella che è una delle parti meno note ma forse più nobili del ciclismo – comunque da non buttare mai -, l’allenamento ovvero le prove del Grande Spettacolo della gara, sarà dedicato il Mortirolo, una delle cime che contano. Salire, si sa, è l’imperativo del ciclismo.

Ma lo è anche rimanere attaccati alla ruota dell’avversario, staccare gli altri, non bucare, non cadere. E, nel caso, rialzarsi. Dunque, è un po’ come la vita. Più di altri sport. Un concentrato di sudore e retorica che non può non giocare duttile in mano a chi vuole costruire mondi: scrittori o retori che siano.

Mi sto preparando al Giro number 100 leggendo (scaricatelo anche voi dal sito) “Il Garibaldi”, la guida ufficiale. E scaricandolo non posso non andare indietro al mio giro d’oro, il mio albo personale. Ognuno ha il suo.

Il mio è targato col nome di una squadra la Bianchi-Piaggio e mi scuso se faccio un po’ di cedimenti alle sponsorizzazioni ma il mio ciclismo è stato a squadre e anche più del basket questo sport deve molto e coincide con i brand.

Io ho amato la Bianchi-Piaggio (che strano ossimoro già in etimologia) per non tradire una vocazione sociale. O socialista. Nessun leader. Sì c’era Baronchelli, è vero. Ma c’era soperattutto un colore, il verde acqua della Bianchi. Lo stesso che penzola sui miei sogni sopra il letto. Quasi fosse un viatico ad andare anche di notte.

Era il 1981 – rileggo dalla guida, dal 13 maggio al 7 giugno – e io mi immagino in procinto di vacanze scolastiche. Quel giro lo vinceva Giovanni Battaglin. Ma subito uno dei miei idoli di quella stagione, Tommy Prim. Secondo, alla fine. Per soli 38″.

Negli anni di Saronni e Moser, di Hinault secondo arrivava uno sconosciuto svedese. Insieme a lui le strade di quell’anno rosa erano state segnate da un norvegese che gli aveva dato man forte: Knut Knudsen. Io amavo quel ciclismo senza leader, senza mobbing sui numeri due, senza gregari definiti per scuderia. Un se sei in forma vai e vinci se no pace.

Ma oggi sogno anche ad occhi aperti. Sogno di farmi trovare a lato della strada nella tappa MONTENERO DI BISACCIA – BLOCKHAUS. Nel mio Abruzzo d’adozione. Magari proprio in cima, lì alla fine delle passeggiate, al Pomilio. Senza scampanare, senza inseguire molesto gli sfiatati pedalatori. Ammirato a guardarli come da ragazzino sempre in Abruzzo davanti alla casa di campagna con le magliette dell’amaro Taccone, nuova avventura a selezione d’erbe dello sfortunato verace, dialettico e gestuale corridore marsicano che piaceva a PPP.

Mi sto preparando leggendo anche nel catalogo – anche questo un mai senza – della Ediciclo, una casa editrice che sa dove andare: a piedi o a pedali. E che ora dà alle stampe anche lei il suo sussidiario per la corsa in rosa. S’intitola “Il Centogiro. 99 storie (più una) dal Giro d’Italia” di Bidon – Ciclismo allo stato liquido, un collettivo per così dire.

Nella nota introduttiva, John Foot fa un suo abbecedario e alla B sì rimette le Bianchi, uno dei pochi marchi a pedali che valga la pena dire. E mi scuso di nuovo per la subliminalità delle mie intenzioni. Il libro è un po’ una storia non scritta della corsa principiando dall’inizio, 1909, e da una telefonata della Contessa Angelini di Roccaraso – di nuovo Abruzzi, nome dell’epoca – che dice di aver incontrato tale Ganna in giro per la regione su velocipede.

Al 1983 è dedicata – nel volume c’è una storia per anno – la vicenda del Guttalax (una cosa che non può non ricordarmi le gite scolastiche) che doveva atterrare (nel senso letterale) il Beppe Saronni. Dovrebbe far ridere e invece…

Insomma il Giro merita storia, storiografia e storielle e, naturalmente, ricordi personali.

E allora eccoci. Fino al 28 maggio attaccati alle radio e alle tv. Ricordando le volte in cui accendere un vecchio Saba, antesignano del colore catodico, proiettava in casa le ombre dei raggi. Io che preferivo bypassare un noiosissimo palla e rimpalla con la più schiappa del corso di tennis poco operaista a cui mi avevano iscritto per abbronzarmi davanti alla tv. Quello era sport vero non il mio surrogato triste con ambizioni.

Ecco lo sport per me si divide in campioni o campionati e tentativi di imitazione. La cosa bella è che l’imitazione è spesso più audace e meritoria del successo ma non per la ridicola massima del partecipare quanto perché ogni gara ha una sua legittimità e, talvolta, un prosciutto in cima alla salita vale quanto una maglia rosa nello stesso luogo. Con rispetto parlando. I luoghi contano, e come se contano.




Founder e direttore di "Perdersi a Roma" collabora con Il Messaggero, il Venerdì e Nuova Ecologia. Ha pubblicato libri di prose, poesie e narrativa di viaggio tra cui "Letti" (Voland), "AmoRomaPerché" (Electa-Mondadori), "La gioia del vagare senza meta" (Ediciclo), "Fùcino" (Il Sirente), "Il mondo nuovo" (Mimesis), "Andare per Saline" (Il Mulino) e "I segni sull'acqua" (D editore).