nonluoghi

Il vero romano vero

Chi è il vero romano? Quante generazioni servono per asseverarlo? E soprattutto: nella indicibile guerra tra turisti e non turisti quale ruolo recita (o dovrebbe recitare) il romano?

A queste domande mi è venuta in soccorso un’immagine. Una delle tante presenti – dall’altro verso – in altri album di fotografie di soggiorni romani. Forse anche i vostri. Nella mia immagine un uomo – rom, romeno, comunque non romano, dall’accento slavo anche se tenta uno strano italiano-spagnolo – sguaina la sua romanità luccicante dal suo fodero e ammanta una foto di tipicità guerresca a caro prezzo. Di chilometri zero. Di vigore e di comando ormai storicizzati e vetusti. Ho pensato a come possa essere facile scambiare una cosa per un’altra se non si conosce la prima. L’uomo gladiava un passato non suo ma forse in questo non mancava di tanto la veridicità storica stante la complessità multietnica dell’Impero romano (una complessità di cui facevano gladiatori come lui non romani né italiani).

Mi è tornata in mente una pagina del bellissimo libro del talentuoso astro nascente nigeriano-americano Teju Cole. Il libro in questione si intitola “Ogni giorno è per il ladro” (Einaudi). Lo scrittore racconta e fotografa un suo ritorno in Nigeria. Con l’aria anche di voler svelare bellezza e non decoro del suo paese di origine. Scrive: “Gli yahoo yahoo” (apro una parentesi: sono dei ragazzi che effettuano piccole frodi economiche in rete a danno di malcapitati spesso stranieri). Dicevo (o meglio scriveva Cole): “Gli yahoo yahoo, in prima linea nella loro guerra ombra, distruggono quel poco che rimane della buona reputazione del paese. I loro successi dipendono dall’ingenuità degli stranieri, che a quanto pare abbonda ancora. Penso si possa dire che l’ingannato e l’ingannatore si meritano a vicenda, in una sorta di società di mutua umiliazione”.

Chi è il vero romano, dunque? Da cosa si distingue? Dalla sua proverbiale atarassia? Dalla capacità di semplificare tutto riducendo tutto a una inessenziale disamina tra il possibile e il rinunciabile? Si presenta come un gladiatore crestato e nostalgico? Tutto tronfio e ingannatore. E da quante generazioni ci si può dire tali atteso che il numero dei romani è cresciuto esponenzialmente dopo l’Unità e la disposizione della Capitale in loco? E ancora, in questo ipotetico di scambio do ut des (tanto per romanizzare), quanto possiamo dire di aver avuto e quanto stiamo dando alla nostra (definire “nostra”!) città?

cara italia
Mi sono ritrovato in biblioteca un vecchio libro di Enzo Biagi. Il titolo “Cara Italia” prometteva un Grand Tour tra alcune eccellenze geografiche del nostro Paese. E non poteva non finirci Roma. Al capitolo XII (l’ultimo): “Una umanissima ‘caput mundi'”. Che così principiava: “‘O Roma o Orte’ diceva Mino Maccari, che odiava la rettorica. Quanta enfasi, e quante rotture di tasca, in nome delle glorie passate”.

In questi giorni verrebbe da pensare che questa enfasi e questa rettorica non risparmia Roma neppure al negativo. L’antologia è lunghetta. In questi giorni non faccio in tempo ad annotare l’esercizio del dissenso e del perturbamento della nostra classe “giornalistica” che già mi ritrovo sopravanzato. E rinuncio ad offrirvene conto. Si va dalla contestazione bieca di una candidatura olimpica da alcuni ritenuta dannosa e anomala alla giusta richiesta di pulizia “amministrativa”. Come se le due cose non potessero viaggiare insieme. O, ammettendo implicitamente (e diremmo “tristemente”), che le due cose non potrebbero viaggiare in parallelo. In una consequenzialità su cui forse oggi nessuno si sente più di scommettere. E questo è vistosamente più triste e autolesionista. Altrettanto lo è l’attribuzione ad un’unica fonte-persona un gran male ormai metastatizzato nonché già ben prima conclamato.

Ancora Biagi: “Non è vero che i romani sono cinici, ma ne hanno viste tante e si difendono dall’autorità: quella ecclesiastica, quella politica”. Rileggendo queste affermazioni targate 1998 mi sono chiesto se forse il cinismo che il giornalista emiliano attribuiva ai “romani” (e – ci ripetiamo – quali romani?) è un po’ retrodatato e sopravvalutato. Il romano (non più romano) non ha più il cinismo come difesa immunitaria ma ha la costernazione come una forma di vittimismo. Definitiva. Vinta più che resistente. Ormai spuntata e arresa. Eppure continua l’intesa (malintesa) capacità di difesa attribuitagli. La casa brucia e i primi costretti a fuggire sono gli stessi abitanti (dai quartieri, dalle notti, da alcuni centri nevralgici degradati, dai bus e dalle metro). Che hanno deposto le armi e attendono un miracolo. Un miracolo che ci pare illusorio attendersi dall’esterno e forse pure dall’interno. Dunque? Sì, facciamo noi al posto di chi non fa. Facciamo noi perché noi riguarda questo degrado. Benvengano le prese di coscienza. Ma se la coscienza deve essere allertata e risvegliata forse deve essere anche ravvivata quella di chi si rende conto di essere stato danneggiato da questo sistema di esproprio economico che merita una class action contro i suoi responsabili. Al di là delle logiche “politiche”, di schieramento, di interesse.

E da domani continuiamo a raccontarvi la piccola bellezza della nostra città.

Founder e direttore di "Perdersi a Roma" collabora con Il Messaggero, il Venerdì e Nuova Ecologia. Ha pubblicato libri di prose, poesie e narrativa di viaggio tra cui "Letti" (Voland), "AmoRomaPerché" (Electa-Mondadori), "La gioia del vagare senza meta" (Ediciclo), "Fùcino" (Il Sirente), "Il mondo nuovo" (Mimesis), "Andare per Saline" (Il Mulino) e "I segni sull'acqua" (D editore).