In difesa di Roma che peraltro si difende da sola, nonostante noi
Roma non fa schifo e, se va amata, Mario Verdone lo aveva fatto bene e lo dimostra la riedizione di “Moccoletti romani” (Edizioni Sabinae).
No, Roma non fa schifo. Non è brutta, non è trascurata. Non è mal governata. Roma, semplicemente non è. Non è l’oggetto vero di queste azioni. Non è neppure queste azioni. O è tutto quello che non avresti pensato o creduto fosse. Arrivandoci, andandotene. Quello che ti attrae e ti repelle prima e dopo. Il miele e la “monnezza”. Roma “vive dei” o “sopravvive ai” e non morirà mai dei suoi difetti. Anzi difetti non ne ha. Ha precetti. Regole e segreti che nessuno conosce, che molti si ammantano di conoscere. O provano a strapparle, smentirle, ignorarle, cancellarle. Roma sembra schermarsi da sola, specchiando il brutto che le viene fatto ricordando a ognuno chi è.
Ho pensato tutto questo leggendo la riedizione di una raccolta di cose romane di Mario Verdone: “Moccoletti romani” (Edizioni Sabinae). Verdone Padre bisognerebbe dire per chi ovviamente sa che da Mario Verdone origina il più popolare Carlo (e ovviamente i due altri figli Luca, che ne firma l’introduzione, e Silvia). Ma Mario Verdone ha vita a sé. La prima cattedra di cinema al Magistero – poi arriva la seconda dell’altrettanto grande Guido Aristarco a Lettere, La Sapienza (che chi scrive ha frequentato) e siamo alle origini italiane degli studi del Grande Schermo – ma Verdone Padre era qualcosa di più di un docente di cinema. E questa raccolta rende giustizia alla poliformità della sua cultura. In particolare alla sua attività di romanista qui segmentata in pezzi pubblicati su varie riviste tra gli anni ’50 e gli ’80.
Ovviamente Roma è protagonista attraverso i protagonisti più eccelsi della sua letteratura locale. Belli su tutti, attraverso analisi e carotaggi di cose molto specialistiche. Si veda ad esempio il pezzo sulla “Cronologia mnemonica” con le tavole riprodotte.
Poi Trilussa teatrante. Il carnevale e i suoi moccoletti – le candele da proteggere tenendole accese mentre si tentava di spegnere le altrui – a cui fa riferimento il titolo.
Ma insieme i ricordi personali di Mario Verone. Bellissimo quello dell’ingresso nella prima casa romana in via del Gesù 62. Una scala e all’altra il ricordo di Federigo Tozzi, uno degli scrittori più interessanti nel repertorio novecentesco.
Vita romana sì ma non facile, non leggera. Ecco allora il grande senese (anche Verdone ha lungamente vissuto a Siena) cercare di fuggire da Roma per la via del reatino o del litorale – Fregene e Maccarese in cui scopriamo forse le prime tracce di inquinamento in un pastore che riporta sull’Arrone vacche vive e il ricordo di vacche perite per cattiva qualità dell’abbeveraggio. Ecco Roma nel romanzo postumo “Gli egoisti” un corollario di tentate conquiste raccontate in tappe forzate che preludono a un “Egli voleva amare Roma e non gli era possibile”. Ed ecco concludere che la risposta è la fuga perché “Roma non aveva aggiunto nulla alla sua indole di natura” e “Andava via da Roma, senza portarne nulla con sé”. Nonostante lo avesse corrisposto, la città, gli avesse donato strade di libertà. Ma sempre rancore.
Bello è il ricordo di un Joyce in sofferenza anche lui nell’Urbe. Lui fuggito dalla penuria economica della Berlitz school triestina che trova impiego bancario con orari massacranti. Cambia case: via Frattina, via Monte Brianzo. Anche lui dà di Roma il senso di un percorso in levare. Non amava la Roma papale, Joyce, non la Roma moderna. Salva il Colosseo, che crollerà con Roma e ne decreterà la fine, citando Lord Byron.
Ma in genere non ne ama le vestigia e il suo mercimonio: “Roma – scrive Joyce – mi fa pensare a un uomo che si mantenga mostrando ai viaggiatori il cadavere di sua nonna”. E il tutto senza aver visto lo squallido scempio delle foto turistiche coi carnevaleschi centurioni né gli scontrini gonfiati.
Leggendo Verdone ho pensato che Roma ha sempre meno persone che la amano. Che la amano davvero, non nascoste nella luce di un sogno calcistico né nell’incantamento di una foto su instagram, di un selfie mandato al mondo come un altro segno di microfurto di bellezza, appropriazione indebita di storia e cultura.
Pochi la amano davvero e in ragione di ciò la rispettano. Pochi si avvicinano al suo segreto con rispetto e non con foga da tombaroli. Da cacciatori di tesori o segreti “monetizzabili”, foto sharabili.
Ma in definitiva questo testo mi ha dato speranza: Roma non finirà. Ma soprattutto non finirà come molti si augurano – nel modo in cui si augurano.
La morte di Roma non è avvenuta e non avverrà. Falsi profeti e falsi becchini sono tutti là, in fila. Proprio dirimpetto ai suoi falsi amici – gente arrivata qui per rubare il suo Sacro Graal, appropriarsi di un segreto, rubare grandezza che poi si trasformi in miseria e polvere.
Le mani che si macchiano di questo vano ladrocinio sono ingioiellate o sporche e scaltre. Mai come nessun’altra città, infatti, Roma ha attratto menti perniciose, guitti, scassinatori, parolai, paludati in ermellini, doppiopetto o fustagni lisi. E ancora oggi è così.
Assalita fino al bordo dei suoi cassonetti, degli scranni, delle segreterie, degli altari. Qualcosa la possiamo fare anche noi. Ogni giorno. Liberandoci anche dall’alibi di oggettivarla contro qualcuno questa rabbia di cui facciamo parte anche noi.