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La Piedra del Sol

La Piedra del Sol di Vicolo Rosini è un ristorante messicano perduto nella Roma delle prime etnogastronomie.




La «Piedra del Sol» più che un ristorante perduto è un ristorante migrato. In rete ho trovato infatti un’immagine dell’insegna del locale, oggi vivo e vegeto a Milano, con lo stesso nome (e immagino la stessa offerta gastronomica) dell’ex omonimo romano. Anche il logo è, a memoria, identico.

Dunque quello che è stato per lunghi anni il primo e unico ristorante messicano della città eterna si è ora trasferito a nord. Come sempre ho compulsato internet alla ricerca di dati più attendibili e tutto quello che sono riuscito a ricostruire – prendendo per buono quanto riportato dai frequentatori di un forum di appassionati di gastronomia – è che “La Piedra del Sol” di Roma ha chiuso tra il 2001 e il 2006.

Io ho frequentato La Piedra del Sol all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso. All’epoca ero un po’ nerd e un po’ geek e lavoravo per una tv privata (o meglio: lavoravo per una società che lavorava per una tv privata). Capitava abbastanza spesso che finite le prove o le registrazioni, i componenti della troupe – che evidentemente non ne avevano abbastanza l’uno dell’altro – anziché tornare dalle loro famiglie decidessero di condividere anche il momento della cena. Io, che una mia famiglia non l’avevo ancora, mi univo senza problemi.




Non ho mai capito perché la scelta del ristorante cadesse sempre verso luoghi distanti dagli studi televisivi e ben infognati in qualche recesso del centro storico dell’urbe dove parcheggiare era una specie di test finale a un corso di sopravvivenza. In realtà concetti come “comodità”, “convenienza”, “genuinità” erano abbastanza estranei a quel mondo e il criterio guida era che il locale prescelto fosse “in”. La Piedra del Sol era sicuramente “in”.

Adesso un nachos te lo tirano appresso anche nei fast food dei centri commerciali (che poi sappia di plastica e il cheddar fuso assomigli alla colla dei calzolai è altro paio di maniche), ma all’epoca la Piedra del Sol (che per la cronaca si trovava vicino Montecitorio) era l’unico posto a Roma in cui poter mangiare la cucina messicana.

Ora, non so che idea abbiate voi della cucina messicana, ma la mia opinione è che sia un po’ tutta la stessa pappa che cambia nome a seconda di come la disponi. Se la pappa la schiaffi in una scodella è chili, se la infili in una tortilla piegata a mezzaluna allora è una quesadilla, se l’arrotoli a sacchetto è una fajita, se l’arrotoli a cannolo è un burrito, se friggi il burrito è chimichanga.

Oh, sia chiaro: a me la cucina messicana piace, ucciderei per un nachos fatto come si deve, con del guacamole preparato all’istante, con la panna acida che sia vera panna acida e del coriandolo fresco sminuzzato ovunque. Ma, appunto, è merce rara. E resta il fatto che è tutta un’unica grande variazione su tema.




Le cene con la troupe alla Piedra del Sol erano caratterizzate dal caldo: un po’ perché la sala si trovava in un seminterrato che della cantina aveva solo l’aspetto ma non il fresco, un po’ perché la cucina messicana può anche essere piccante, un po’ perché io ho caldo a prescindere.

Come ho detto all’epoca ero mezzo nerd e mezzo geek ed entrambe queste metà sudavano. E più sudavo più guardavo sbalordito i miei commensali, truccatissime segretarie di redazione, incravattati direttori di produzione, che tracannavano grolle di chili bollente e piccante senza che le loro pelli si imperlassero del benché minimo sudore. A me bastava sentire la frase “oh, stasera tutti a cena alla Piedra del Sol” che già ero fradicio.

Sono davvero passati troppi anni perché io possa ricordare la qualità del cibo della Piedra del Sol, ricordo invece le lunghe, perplesse letture del coloratissimo menu plastificato, la vana decifrazione di quei termini oscuri (chipotle, tacos, pico de gallo).

Ci sono dovuto andare almeno tre volte per capire che il guacamole era quella specie di pappa verde e altre due per capire che quella pappa verde era a base di avocado. Oggi, che il guacamole sono bravissimo a prepararlo a casa da me (soprattutto quando riesco a trovare gli jalapeños senza girare tutti i supermercati di Roma), ripenso con tenerezza a quelle cene alle dieci di sera, stanchi (non tanto per il lavoro quanto per la fatica di trovare parcheggio), ordinando cose incomprensibili da un menu colorato.




Scrittore romano ha pubblicato la raccolta di racconti "Buon lavoro" (2006) e i romanzi "Il primo sangue" (2008) e "Bambini esclusi" (2012). Nel 2013 esce per Gallucci il romanzo "Il Dio che fa la mia vendetta".