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Nour Melehi: Sulla fotografia di Mauro Petito

Mentre oggi si apre una collettiva in cui saranno esposte anche le foto del fotografo Mauro Petito, alla galleria lab174, pubblichiamo questa nota critica della etnoantropologa esperta di fotografia Nour Melehi sull’opera del fotografo napoletano “De unius multiplicitate”.





Chi di noi non ha immaginato – almeno per una volta – di assistere al proprio funerale?
Quanti arditi hanno saputo effettivamente mettersi in scena su un letto di morte?

Quesiti coraggiosi, finanche doverosi. La familiarità con un (presunto) limite apre la strada alla consapevolezza, e l’idea di una transitorietà ci svincola dal concetto di fine ultima per riportarci al momento presente, incastonato in un ciclo perpetuo di alternanze fine/inizio.

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Cogliere l’Io permanente nell’impermanenza, diremmo. Ma anche: morire a noi stessi e ai nostri cari per rinascere cambiati, trasfigurati. Per liberarci dal peso delle convenzioni e delle forze imitatrici che ci vogliono timidi anelli di lunghe catene genealogiche, e ritrovare l’Essere essenziale che è in noi e che preme da dentro, forte del suo impulso innovatore.

Sembra partire da qui la riflessione di Mauro Petito – artista, fotografo, regista, occasionalmente attore – che in questa serie di immagini fonde prima se stesso (e i propri mestieri) per poi sdoppiarsi, triplicarsi, moltiplicarsi, parcellizzarsi pur rimanendo integro, a riprova del fatto che in ogni parte è contenuto il Tutto, come spiegano le teorie dell’universo olografico.




E come in una stanza degli specchi, numerosi sono i punti di vista: quello dell’artista, quello dell’osservatore, quello di ciascun personaggio sulla scena, in un continuo rimando di sguardi che aggiunge ritmo alla già articolata regia. L’artista sceglie e misura con precisione luoghi, temi, gesti, tonalità cromatiche ed espressive, creando raffinati microcosmi umani, mostrandoci la complessità dell’individuo, le sue infinite varianti interiori; in breve, la pluralità del singolo. De unius multiplicitate.

Ma chi è quest’uomo sfaccettato, smembrato, nudo di fronte al malessere e alle sue vulnerabilità, capace di puntarsi una pistola alla tempia ma anche di tendere la mano a se stesso per salvarsi dall’abisso, sospeso tra l’individualità e l’essere conforme, indeciso se tenere indosso la maschera o abbassarla, scanzonato, beffardo (a volte) ma ugualmente e simpaticamente (auto) ironico?
Certamente siamo noi. Perché così come nella parte c’è il Tutto, nell’altro posso riconoscere me stesso.

Microcosmi umani, dicevamo. Sottili impalcature dello spirito, che solo apparentemente si esauriscono nei significati della composizione e nella precisione tecnica, e che invece lasciano intravedere tutt’altro. L’essenza più profonda della tecnica non è nulla di tecnico diceva Heidegger. Difatti. A ciascuna fotografia sembra sottendere una pratica silenziosa, un fare attento e concentrato del soggetto volto alla sua autorealizzazione.

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Potremmo chiamarle meditazioni, queste lunghe sequenze rituali di gesti (e scatti) solitari e sovrapposti che conducono l’artista dall’idea iniziale al suo effettivo compimento. Un chiaro sentiero nel quale ogni mente saprebbe ritrovare la sua giusta quiete. Per giungere pacificamente ad osservare se stessi, con occhi più grandi e gentili.