flânerie e viaggetti

Olšany, Praga

Olšany, Praga. Un estratto da Scusate la polvere. Cimiteri, sospiri e piccoli miracoli (Bottega Errante) di Paolo Patui.

Fa ancora freddo. E dentro al cimitero immenso, enorme, la neve scricchiola sotto i piedi e accarezza le lapidi, le tombe, le guglie alte o basse e comunque infinite per foggia, stile e moda. Un odore di muschio umido penetra fino alle ossa, mentre, fermo in un attimo di assoluta sospensione, mi pare di percepire una sorta di esile sospiro che dalla terra sale fino alle cime degli alberi.

Perché qui a Olšany non sai bene se sei dentro a una foresta abitata o a una cittadella che si è insediata all’interno di una selva multicolore. Questa è roba antica. Il cimitero di Olšany esiste dal Seicento, voluto per ospitare le vittime di una epidemia di peste che morivano vorticosamente e che rapidamente dovevano essere sepolte per sconfiggere l’assalto del contagio.

Nell’Ottocento diventa per definizione il cimitero di Praga, sempre più esteso, variegato, complesso. Oggi Olšany è una matrioska, una scatola cinese, un insieme di cimiteri che sono lì a dirti, se ancora non l’hai capito, che la morte e il desiderio di memoria e il rispetto per ciò che si è vissuto e ciò che si è perduto sono tutti accumunati dalla fine della vita terrena.

Nei dodici cimiteri che compongono la necropoli riposano cattolici e ortodossi, musulmani e atei, soldati dello zar e soldati dell’Armata Rossa che hanno inseguito Napoleone o Hitler, e con loro ci sono i soldati di Napoleone e di Hitler che, inseguiti dagli uomini delle armate russe, sono crollati a terra, nella neve, nel gelo, nella rabbia, nel dolore. Stanno tutti qui. Compresi gli ebrei. Il vecchio e monumentale cimitero ebraico di Praga ha trovato ora nuova sede.

Accanto all’Olšany. Immaginavo che lì volesse portarmi Sawana, a cercare la tomba di Kafka.

E invece lei, che all’ingresso del cimitero si è tolta la gomma dalla bocca, kafkianamente mi indirizza lentamente ma inesorabilmente altrove. Le altre non ci vengono dietro. Hanno freddo, sono stanche. E un po’ deluse da quella teoria infinita di croci di varie forme e da quell’insieme di linee curve così demodé. Se ne vanno al museo. Dicono. Le lascio andare.

Non è la prima volta che lo faccio in una gita scolastica. Anche perché non capisco cosa insegua Sawana. Cerca. Ma non so cosa. Glielo chiedo. Non mi risponde.

Sbuffo. Fa finta di nulla. Mi spazientisco. Mi ignora. Le intimo: «Sawana, ora basta, torniamo indietro!».