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Il romanesco del Belli

Il romanesco del Belli in questo saggio di Giorgio Vigolo che ha cambiato la fortuna Der Sommo Poeta.


Chi era Belli, forse lo sapete. Chi era Vigolo, per qualcuno necessita di una breve premessa. Dobbiamo a tutti gli effetti considerare Giorgio Vigolo un maestro della lettura poetica della nostra città. A chi ama Roma, infatti, non può e non deve sfuggire quello che ha fatto Vigolo per eternarla con grazia naturale e rara (anche rarefatta, peraltro). Giova leggere i suoi versi (purtroppo difficili da trovare) e i due volumi “La città dell’anima” e “Roma fantastica” (ancora per fortuna tra noi). Il resto è sempre da cercare in mercatini generosi. In questo libro meritoriamente ripubblicato dalla Elliot (“Il genio del Belli”) ritroviamo un suo saggio necessario per capire l’opera del grande poeta romano in dialetto. Scritto in un’epoca in cui ristudiarlo e riscoprirlo finiva per sembrare vintage se non residuale, un vero repechage per i tempi. Vigolo nacque a Roma nel 1894 dove morì nel 1983. Il padre era vicentino ma la madre romana di una famiglia importante. Nell’introduzione al volume, lui stesso ci rivela la scoperta del legame intrecciato tra sé e Belli. Eccone qui dei brevi estratti. Targati 1 luglio 1963.

vigolo

In questo anno che segna un secolo dalla morte del Belli ma insieme
un punto di ascesa nella valutazione del suo genio che cento anni fa nemmeno
i suoi ammiratori più convinti avrebbero potuto prevedere, mi
viene offerta l’occasione di ricapitolare i momenti della lunga esperienza
che ho vissuto accanto al Poeta, a cominciare dalla singolare coincidenza
che mi fece nascere quasi all’ombra tutelare del suo nome.

Nei primi anni di Roma capitale fu intitolata al Belli una strada nel
nuovo quartiere dei Prati di Castello. La casa dove sono nato sul Lungotevere
Mellini, allora folto di belle acacie dorate, era quasi sull’angolo della
«Via Gioachino Belli»; ma quel nome che così spesso sentivo ripetere,
era per me un puro suono, che ancora oggi mi evoca il colore di una via
deserta e silenziosa, quasi ai margini della campagna. Tale è stata la prima
apparizione del Belli negli albori della mia vita e forse l’indizio di
una certa predestinazione.

Eppure, se io avessi potuto fare un poco di ricerca del tempo perduto,
risalendo indietro negli anni dell’Ottocento, scavando nei ricordi romani
dei miei nonni materni, non avrei tardato ad imbattermi proprio nel
Belli in persona, il quale chissà che non abbia anche salito le scale di una
di quelle case della vecchia Roma in cui mia madre mi diceva che la sua
famiglia aveva abitato, in anni remoti, in via Giulia, o a via S. Venanzio,
al Palazzo Braschi sulla Piazza Navona, o al Palazzo della Scimmia sulla
Piazza di S. Antonino dei Portoghesi. Se mio padre, veneto, era venuto
a Roma dalla nativa Vicenza, mia madre apparteneva alla famiglia Venturi,
di Campagnano, ed era nipote di Pietro Venturi che fu sindaco nei
primi anni di Roma capitale dal giugno 1872 al novembre 1877, lasciando
la carica solo per breve periodo al Pianciani.




In una fotografia che era in casa, ma che non è difficile trovare riprodotta in
raccolte storiche dell’epoca, si vede un bell’uomo bruno con barba e tuba, in un elegante
cappotto scuro, seduto con le gambe a cavalcioni accanto a Garibaldi, nel
banchetto che gli fu offerto il 14 febbraio 1876 dalle Società operaie romane,
nell’aula del Mausoleo di Augusto (dove poi io avrei dovuto ascoltare
tanti concerti!): l’uomo seduto accanto a Garibaldi era appunto
Pietro Venturi, zio di mia madre, allora giovinetta. Orbene, il futuro sindaco,
nei suoi giovani anni, era stato anche poeta, e appunto per ragioni
di poesia, aveva conosciuto il Belli; anzi, nel 1843, quando questi scagliò
i suoi strali contro i fanatici della danzatrice Cerrito, suscitando le loro
rappresaglie, vi fu una tornata all’Accademia Tiberina in cui Pietro Venturi
lesse due sonetti del Belli e un suo sermone in versi sciolti, in difesa
del poeta, con la dedica «All’amico Giuseppe Gioacchino Belli, iniquamente
offeso», che così concludeva «Orsù la mano all’arco / Belli ed il
fischio dell’ascrea saetta… / Ma tu sorridi? E della man m’accenni / di
posar l’ira?… Ah! Ben t’intendo. Solo / Gl’imbecilli a punir basta lo
sprezzo!».

Non saranno dei grandi versi: ma pure quel sorriso del Belli, quel
suo gesto all’amico di tornare tranquillo, quell’invito alla serenità ce lo
fanno vedere in persona, come proprio doveva essere, in uno dei suoi
atteggiamenti più naturali.
Da questa amicizia col Belli del fratello di mio nonno, io ebbi tuttavia
notizia inaspettata solo qualche anno fa, mentre lavoravo al commento
dei Sonetti; come pure, solo allora ebbi la sorpresa di trovarvi più volte
ricordato il dottor Carlo Maggiorani di Campagnano, che sapevo essere
stato medico della famiglia Venturi, come lo era stato del Belli.2 Non solo
amicizie comuni, dunque, ma anche medici comuni!

Ma di questa oscura genealogia della mia esperienza belliana io non
ebbi alcuna coscienza. L’educazione datami da mio padre che già alimentava
nel mio temperamento la vocazione per il nord, mi orientava
piuttosto verso il fascino della moderna Europa. Così nulla seppi dei
Sonetti romaneschi nella mia giovane età. Mio zio Giuseppe Vigolo traduceva
l’Intermezzo lirico di Heine, poeta che già conoscevo nei più bei
Lieder di Schubert e di Schumann. Quando poi verso il 1911 cominciai
a frequentare la terza saletta del Caffè Aragno o lo studio del poeta Arturo
Onofri, ai tempi della rivista «Lirica» (1913-14), dove conobbi mezza
letteratura italiana d’anteguerra, da Borgese a Rosso di San Secondo,
da Fracchia a Savarese, a Cecchi, a Comisso, ad Antonio Baldini, ricordo
che nelle molte discussioni che si facevano tra una lettura di Dostoevskij
e una dell’Ariosto, il discorso cadeva anche sulla poesia romanesca:
ma si parlava di Pascarella o di Trilussa e un poco anche di Zanazzo;
di Belli mai.

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(…) Ho parlato di una specifica coscienza critica ed estetica che si andava
preparando in altri campi: e l’affermazione mi riguarda particolarmente,
riguarda quel necessario periodo cui ho prima accennato, in cui,
per una sorte che oggi mi sembra non improvvida e forse dominata dalle
mie cause finali, rimasi lontano, fino all’età maggiore, dalla scoperta del
Belli. Forse perché prima dovevo fare le ossa ad altro, ma soprattutto
realizzare in me quelle condizioni di estraniamento da una ristretta e per
me materna, ereditaria municipalità romana, e allontanarmene fino a dimenticarla
nel più vasto mondo della cultura europea, per poi compiere
il cammino inverso, il nóstos, e tornare a vedere Roma dal difuori, con la
prospettiva necessaria e la distanza e la illuminazione che solo possono
farne sentire le reali dimensioni di grandezza. E in ciò ripetevo senza saperlo
l’esperienza stessa del Belli, che per scoprire il romanesco e la sua
stessa città, dovette prima stare lungamente come garzone al banco delle
Muse a battere e limare endecasillabi, e poi solo verso i quarant’anni,
poeta extra-urbem, uscire da Ponte Molle per la via Cassia e viaggiare
l’Italia, arrivare a Milano, scoprirvi il Porta, incontrarvi degli amici milanesi
intelligenti e simpatici, innamorati del romanesco, e così innamorarsene
anche lui da lontano; e, da quel settentrione ambrosiano, come
poi dalle Marche di Leopardi, rivedere, come trasfigurata e possibile
oggetto di poema, la città dei Papi e la sua plebe. «Io ho deliberato di lasciare
un monumento di quella che oggi è la plebe di Roma».




(…) Ma ciò venne lentamente maturando. La mia prima opera se posso così
dire di divulgazione e di illustrazione del Belli, avveniva in quegli anni
della guerra del ’15-’18, nei continui incontri che avevo occasione di fare
con uomini sempre diversi e delle più diverse regioni d’Italia. Avevo
con me, nella cassetta militare, un grosso taccuino, foderato di tela nera
incerata, su cui avevo ricopiato un centinaio di Sonetti, mettendo insieme
così la mia prima antologia belliana: e ne andavo facendo letture e
dizioni, in cui venivo sperimentando, dalla impressione che ottenevano
su non romani e perfino su stranieri, la forza non solo dialettale che dovevano
racchiudere. E già ricevevo le prime esortazioni a preparare qualche
nuova edizione o raccolta di Sonetti, presentati come io li sentivo e
ammiravo. D’altra parte, tornato a Roma, non tardavo ad avere conferma
degli stessi risultati anche con i miei amici letterati e poeti, fra cui
Salvatore Rosati e poi Sergio Ortolani. Ma l’ammirazione più solidale
per il Belli mi fu subito manifestata senza riserva, dopo le prime letture,
dal poeta Arturo Onofri che, per molti motivi, per la sua ansia di trascendenza
e di cosmica religiosità, poteva sembrare il più lontano dal Belli.
E invece non fu affatto così.

Onofri fu tra i più autentici estimatori dei Sonetti romaneschi,
che io abbia conosciuto, anche in tanti anni di
successive esperienze: ne fu estimatore vero, che non esitava a metterlo
fra i maggiori poeti di tutti i tempi. Nella sua nuova casa a Lungotevere
Castello, teneva i sei volumi dei Sonetti, rilegati in tela verde, alla sinistra
della sua scrivania, in uno scaffale minimo dove aveva conservato
accanto a sé, a portata di mano, solo gli eletti. Il resto della vasta biblioteca,
lo aveva ora estromesso dal suo studio, non senza intenzione polemica
antilibresca, e confinato in lunghi corridoi: Onofri, non solo comprese
il Belli come pochi, ma apprese da lui, e ne risentì, in certa forza e
peso del suo proprio poetare, in certo gusto delle sue proprie immagini,
di cui ha ereditato il vigore, le iperboli, i superlativi, l’arco del sonetto.




E non mi sarebbe difficile darne esempio con i testi alla mano: esempi che
riuscirebbero utili non solo per l’Onofri, ma anche per lo stesso Belli,
che nessuno si aspetterebbe possa avere avuto per discendente romano,
sia pure indiretto ed esoterico, un poeta quale l’autore di Orchestrine o
di Terrestrità del Sole. Anche qui, come nel mio caso personale, certe esperienze
di alchimia del verbo, fatte sulla più recente ed avanzata poesia
europea, si dimostravano stranamente operanti e preparatorie alla comprensione
del Belli: e il barocco metafisico dei «quattro angioloni» si ingigantiva
in favolose costruzioni cosmologiche, quasi dispiegandovi la carica
di lirismo represso che, in quel famoso sonetto, comicità ed ironia
avevano inibito e fatto finire in nulla, come nella definizione kantiana
del comico. Sono questi, lo capisco, i confini più arrischiati della interpretazione
belliana, dai quali però si torna con più frutto al vero centro
del suo problema. Leggere Rimbaud per capire Belli: è certo un paradosso,
ma che può scuotere l’inerzia delle interpretazioni abitudinarie e
diluire la crosta opaca e polverosa, sotto cui esse nascondono il bagliore
del genio.

Queste mie rievocazioni più o meno autobiografiche vogliono qui
soprattutto significare una testimonianza del clima specificamente poetico,
dal quale doveva poi a poco a poco sorgere la nuova valutazione e
messa a fuoco del Belli.