flânerie e viaggetti

Teresa e Santa Teresa

Una pagina dall’ultimo libro di Paolo Di Paolo, “Una storia quasi solo d’amore” (da poco in libreria per Feltrinelli, che ringraziamo con l’autore per l’estratto), ambientata in Santa Maria della Vittoria.




Ci sono scrittori che destano ammirazione – in qualcuno sospetto (o dispetto, addirittura) – perché da subito, anche se giovani, testimoniano maturità. Talvolta si tratta di una consapevolezza che può irritare come accade anche in questo libro, in un dialogo tra i protagonisti (“Mi irrita questa tua_saggezza. – Non è saggezza è esperienza”). In certi autori questo accade: una saggezza imprevista, figlia forse di un’esperienza intuitiva, un’adultità un po’ miracolosa. Deve essere successo a Moravia, a Radiguet. A scrittori che sono arrivati presto alla pubblicazione e con autorità non solo di scrittura ma di esperienza intuita di vita. Per Paolo Di Paolo deve essere capitato qualcosa di analogo. E l’ultimo libro – da cui citiamo una pagina, per così dire, emblematica – trova l’autore ancora giovane anche se con libri alle spalle di nuovo capace di questa magia del tempo che si riflette anche nella duttilità di una prosa che sa raccontare l’inizio incerto e un po’ capriccioso dell’amore con identica capacità, questa volta regressiva, di parlarlo con la voce dell’inesperienza. Nella scena, che citiamo, la Teresa co-protagonista è davanti alla Santa Teresa dell’estasi berniniana in Santa Maria della Vittoria con Nino (Flaminio) Morante (un duplice cripto-omaggio incrociato, forse, all’autrice de “La storia” e a uno dei suoi personaggi più famosi), il protagonista, a dire quanto l’amore necessiti di un incantamento vinto/sconfitto dalle frecce per dispiegare la sua forza vera. Il libro si muove tra carne e spirito (perciò non è casuale la scena) e traccia uno sviluppo intenso e per ciò faticoso della vicenda del cuore. L’incipit del romanzo è forse tra le pagine con più grande potere evocativo nella voce lontana ma presente di Grazia, la zia narratrice. Buona lettura.

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Una sera avete preso il tram insieme.
Teresa era appena uscita dall’ospedale, Nino l’aveva
aspettata fuori. Facciamo una passeggiata in centro?, ha proposto
lui. Teresa ha risposto con un’altra domanda: perché
non entri mai? Non mi va di vederla così, ha risposto Nino.
Così come? Così, malata. È un atteggiamento un po’ sciocco,
un po’ infantile, ha detto lei. Forse sì, non importa, io rivedrò
Grazia quando uscirà dall’ospedale. Teresa è rimasta zitta il
tempo tra una fermata e l’altra, guardando davanti a sé, poi si
è voltata verso di lui, di scatto e con una durezza nello sguardo
che non le aveva mai visto prima. Ma l’hai capito che potrebbe
non uscire da quel cazzo di ospedale? Non mi va di
pensarci. Tu pensi solo a quello che ti fa comodo pensare o
che non ti spaventa troppo, no? È sempre così. Teresa, ha
detto lui, ma perché non provi a– A cosa, a fare cosa? Niente,
scusa. A credere in Dio, a credere, avrebbe voluto dirle, ma
non ha detto niente. L’ha guardata con una tristezza che, tradotta
in parole, avrebbe significato: come faccio a consolarti
io? Lei ha provato a fidarsi del tempo insieme, ha lasciato cadere
l’argomento, ha detto: ti porto a vedere una cosa. Lui ha
respirato, sollevato nel sentirsi proporre uno svago. Però
dobbiamo prendere anche un autobus. Avete attraversato
piazza della Repubblica sotto un tramonto maestoso. Teresa
ha letto in quella luce un indizio d’estate, e sentito una stretta
allo stomaco. Ce la potremo mai permettere una notte qui?,
ha chiesto Nino passando davanti al Grand Hotel. Ed è stata,
dopo molte settimane, la prima frase che potesse suonare come
un’allusione all’amore che non avevate più fatto. Quando
saremo ricchi, ha risposto Teresa, e l’ha lasciata cadere. Vi
siete ritrovati davanti alla chiesa che fa angolo con via Bissolati,
Nino non ha chiesto niente. L’ha seguita incerto mentre
entrava e, dopo un segno di croce, percorreva a passi svelti la
navata centrale. Si è accostata a una cappella alla sinistra
dell’altare, gli ha detto: guarda. Lui ha alzato gli occhi, e in
quel piccolo teatro – le quinte di raggi d’oro, dai palchetti
intorno si affacciano, per guardare, uomini barbuti – ha visto
un angelo giovane pronto a trafiggere con una freccia una
donna con il capo coperto come una suora, stravolta e arresa,
la bocca aperta, gli occhi socchiusi. L’angelo giovane sorride.
Cos’è?, ha chiesto Nino. Bernini, ha risposto Teresa. È andata
a sedersi, lui è rimasto ancora un po’ a contemplare il volto
della donna – bianco, lucidissimo, di un marmo che pareva
muoversi, come carne percorsa dal piacere. Poi si è seduto
anche lui, avrebbe voluto cingerla con un braccio, dirle: insegnami
a pregare. Invece ha ripetuto: cos’è? Lei gli ha raccontato
sottovoce un pezzo di quella storia – la santa che porta il
suo nome, lo scultore prodigioso, quel miracolo di bellezza
viva e sensuale, nient’affatto casta, che lui considerava l’opera
migliore fra tutte le sue opere. Uno dei pochi segreti di
Roma che poteva dire di conoscere. Le sembrava prezioso,
aveva voglia di condividerlo. Lui – stranito, turbato – ha detto
soltanto: grazie di avermi portato qui. Lei si è avvicinata al
suo orecchio con le labbra – Nino ha sentito il respiro vicinissimo
– e in sussurro ha detto: la vedi quella scritta in latino,
lassù, tenuta in mano dalla piccola folla di angeli? Dice così:
se non avessi creato il paradiso, lo farei anche ora solo per te.
Sembra una dichiarazione d’amore, ha detto Nino. È una
dichiarazione d’amore, ha detto Teresa.