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Verso Montecassino

In un estratto “Come la polvere. L’odissea dei profughi di Montecassino” il bel libro di Marisa Errico Catone uscito per la casa editrice Nuova Dimensione una diaspora bellica in terra ciociara.





Il libro è la storia di Mentina, una povera sguattera, che rimane vittima di uno stupro di gruppo in una masseria della campagna ciociara. Sullo sfondo l’Abbazia di Montecassino, dove da mesi si è bloccato il fronte che oppone le truppe tedesche a quelle alleate, in un viaggio di povertà e miseria ricostruito dall’autrice attraverso memorie raccolte nei luoghi. Ve ne offriamo un estratto.

Verso Montecassino
di Marisa Errico Catone

Tra Scifelli e l’abazia di Casamari temettero di essersi persi
nell’intrico dei macchioni quando non riuscirono più
a seguire il corso del torrente Amaseno, che fino a quel
momento era stato un rassicurante compagno di viaggio.
Una bambina dal viso affilato e grigio, languida e regale
sull’alto basto di un mulo nero, con poche parole e precisi
gesti li indirizzò verso Boville Ernica, che superarono
sul far della notte senza osare entrarvi, presi entrambi da
un’inspiegabile angoscia che non furono capaci di confidarsi
in alcun modo.

Lungo il cammino si erano parlati poco, limitandosi
allo scambio impacciato di esclamazioni rauche: Mentina
soprattutto, che più a lungo di Michele era vissuta sulle
pendici selvagge del Pedicino e non si era mai recata oltre
Veroli, si fermava spesso ad ammirare le valli, che erano
ancora verdi di noccioli e pioppi, sempre più fittamente
abitate. La presenza dell’uomo, testimoniata ovunque
dai turgidi mammelloni dei pagliai, dalle capanne di frasche,
dal fumo delle carbonaie, dalle luci lontane e dalle
voci ovattate dalle distanze, la consolava e la sorprendeva
come un fatto nuovo e delizioso. Le donne, da Don
Cosimo, nelle veglie invernali parlavano spesso di Alatri,
Sora, Isola Liri, delle larghe vie alberate con i negozi e i
grandi palazzi, così diversi dalle masserie di tufo con i
loro archi neri e i tetti coperti di lichene.
Avvezza sin dall’infanzia a vivere di poco o nulla, confinata
com’era nel ghetto invisibile della miseria e dell’ignoranza,
la giovane scoloriva, emozionata, ogni qual
volta incontrava degli sconosciuti, uomini o donne che
fossero. Sul viso cotto dal sole, nei piccoli occhi scuri
circondati da una precoce raggiera di rughe, refluiva nel
contempo un lampo di terrore.

Michele rallentava il passo e le si affiancava, prima di
chiedere ai viandanti ragguagli sulla strada da seguire; in
tal modo lo stalliere intendeva affermare la propria autorità
di guida e capo, rivelando inconsciamente di condividere
il disagio della compagna. I radi passanti li osservavano,
resi perplessi dalla loro goffaggine e da quell’espressione
di creature braccate. Non sapendo di preciso cosa chiedere,
visto che ignoravano per il momento dove stessero
dirigendosi, Michele andava di volta in volta limando
il proprio discorso, arricchendolo di confusi particolari.
Intimorito da alcuni precisi “dove” e “perché” sparatigli
addosso da un contadino più sospettoso degli altri, si decise
a pronunciare un nome: Montecassino.

«Andiamo a Montecassino» imparò a rispondere anche
Mentina, stupita ma confortata di avere finalmente
una meta. Tutti sembravano trovare ovvio che ci si recasse
a Montecassino, da san Benedetto, in quei foschi
tempi.

Non era la prima volta che Morte e Guerra, i due cavalieri
dell’Apocalisse, cavalcavano quelle colline, spalmando
i nudi crinali di roccia con un quasi tangibile strato
di orrore. Le cascine sfondate, le butterature lasciate dai
bombardamenti, i resoconti di ammazzamenti ascoltati a
bocca aperta, di sera, nelle grotte lungo la strada o nelle
capanne dei carbonai, intorno al fuoco, insinuavano nelle
vene dei due viandanti una sempre presente paura fisica.
Quando i borsaneristi napoletani, resi obesi dai cappotti
imbottiti di lardo e salumi, raccontavano gli episodi più
movimentati della loro vita di pendolari, costretti a spostarsi
di qua e di là del fronte, e di come i tedeschi fossero
soliti razziare gli uomini nel fondo valle per mandarli a
scavare trincee o spazzare macerie, Mentina si sorprendeva
a tremare all’idea che le portassero via il suo uomo
e di restare sola con la cesta e la coperta.

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«Voi due andate all’abazia?».
«Sì».
«Fate bene. I monaci sono brava gente».
«E i tedeschi?».
«Ce n’è anche tra loro!».
«Tanti?».
«Eh!».
«E allora?».
«C’è anche san Benedetto, però!».
«E la guerra c’è?».
Di solito, a questa domanda seguivano occhiate indecifrabili.
Mentina e Michele finirono per convincersi che
tutti parlassero tanto per dire qualcosa e che in verità nessuno
sapesse veramente come stavano le cose. Sembrava
che ci fosse un gran mistero su quanto riguardava l’abazia.
«La guerra c’è dappertutto» aveva ammesso un vecchio,
annuendo più volte. «Ma anche san Benedetto, però…».
«Ci credono pure i tedeschi a san Benedetto?».
«Tutti credono a san Benedetto!».

Un capraio cadaverico, avvolto strettamente in un
mantello a ruota, chiese loro se sapessero mungere le capre.
Mentina era una vera esperta e così furono ingaggiati
sull’unghia, per pochi soldi e un vitto abbondante, nei
dintorni di Rocca d’Arce, dove rimasero circa due settimane,
in una terraccia irta di rovi, chiusa tra la Via Casilina
e la linea ferroviaria, a mungere e pascolare circa
duecento tra le più perfide bestie di cui si fossero mai
occupati, nere, insidiose e bisbetiche al pari del padrone,
un satanaccio sempre pronto a berciare e a tirare calci
da levare la pelle ad animali e cristiani. Il trattamento
non sorprese troppo i due nuovi garzoni, soddisfatti
che almeno la promessa del vitto abbondante fosse stata
mantenuta. Per la prima volta in vita sua Mentina beveva
latte al posto dell’acqua e nessuno le lesinava il pane e la
ricotta fresca.

Dopo dieci giorni di quella vita le grinze del volto si
spianarono e i seni cominciarono a lievitarle. Prese l’abitudine
di ripassare i capelli con il pettine fitto e di sciacquarsi
il viso tutti i giorni. Lavò i pochi propri indumenti
e riprese a filare. Gli abiti di Michele, di grossa stoffa,
erano notevolmente migliori dei suoi ma ingrommati di
sporcizia e intrisi di sudore. Mentina lavò anche quelli,
dopo averne strappato il permesso, in un giorno di sole,
all’esitante stalliere.