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Ayfer Tunç

Intervista ad Ayfer Tunç i cui romanzi raccontano spesso il lato sociale della Turchia. Allegoria di un paese che ha voltato le spalle al mondo. Di lei da Edizioni Clandestine sono stati tradotti “Tambura Blues e altre storie” e “La notte dell’assenzio”.





Particolarmente interessante nel panorama turco delle ultime generazioni, la voce di Ayfer Tunç, nata a Istanbul nel 1964, si è riversata in romanzi, racconti e saggi, nessuno dei quali ancora tradotto in italiano. Ma il suo maggior successo è stato un libro di memorie sulla vita in Turchia negli anni ’70, Bir maniniz yoksa, annemler size gelecek, ovvero “Se non avete niente in contrario, verremmo da voi”, frase con cui si chiedeva a chi possedeva il televisore, la grande novità tecnologica dell’epoca, di venire ammessi alla visione collettiva in salotto. Anche il recente romanzo di Ayfer Tunç che ha riscosso ottimi consensi: il titolo è molto lungo, mal’autrice lo riassume in Delilerin evi, “La casa dei matti”. La incontriamo in un ristorante georgiano della zona di Cihangir.

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I suoi libri – si direbbe – nascono sempre da un interesse sociale…

Sì, “La casa dei matti”, ad esempio, ha come cornice la costruzione di un edificio sul mar Nero, una costruzione lunga e farraginosa, ostacolata dalla corruzione, le lungaggini, l’intervento di vari politici. Il palazzo finirà per non avere finestre che danno sul mare, benché sia costruito proprio sulla costa. Gli abitanti delle rive del mar Nero, nei pregiudizi di noi turchi, sono stupidi, e questo stupido palazzo che volta le spalle al mare e verrà adibito a manicomio vuole essere la metafora di un paese che volta le spalle al mondo. All’interno del manicomio si intrecciano le storie dei medici e dei pazienti, che nel loro insieme contraddittorio e un po’ folle danno conto delle tante facce della Turchia, dove tra il 1960 e il 1980, non dimentichiamolo, ci sono stati tre colpi di stato.




Quali sono, secondo lei, gli autori turchi che meriterebbero di essere tradotti?

Innanzitutto Oguz Atay, il più grande scrittore degli anni ’70, poi, tra i romanzieri, Leyla Erbil e Yusuf Atilgan. Ma nella nostra letteratura i risultati più alti si raggiungono nella poesia: questo vale non solo per un grande come Nazim Hikmet, ma anche per i contemporanei, per esempio Murahat Mungan o Kuçuk Iskender. Tra gli autori religiosi, alcuni dei quali escono decisamente dall’ambito autoreferenziale, c’è Sezay Karakoç, che oggi vive molto isolato, o Cahit Zarifoglu. Le loro poetiche sono apprezzabili anche da lettori laici e di sinistra.

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E lei come si descriverebbe?

Direi che sono un caso di schizofrenia artistica abbastanza tipico di questa nostra “casa di matti”. A un libro chiedo di scavare nell’essere umano e di farlo con gli strumenti più appropriati: detto altrimenti amo la letteratura “alta”. Ma per vivere scrivo una serie televisiva molto popolare, Ask ve ceza (“Amore e castigo”), sessanta pagine a settimana, tutte le settimane, cui vanno aggiunte le riunioni con registi e produttori. Ritmi diversi da quelli che richiede la letteratura.




Scrittore, critico e traduttore ha pubblicato "Brenda e Plotino", "Se mi chiami amore" e "Nero Istanbul": tutti per Fazi. Scrive su "Alias - il manifesto".