C’è chi scende e chi sale
Il bel libro di Alessandro Mauro “SE ROMA È FATTA A SCALE. Stanno alle strade come traverse però fatte di gradini” delle edizioni Exorma vale più di un estratto: vale la lettura che consigliamo. Non tanto per l’idea in sé quanto per la bella realizzazione narrativa che non tradisce mai il bozzetto o la sciatteria della forzatura attorno allo spunto di partenza che è quello di eternare i tanti percorsi ascendenti e discendenti della Roma fatta a gradini. Ne abbiamo selezionati per voi tre dei settantasei scritti in una prosa poetica efficace.
Via dei Querceti
La maggior parte delle rampe, a Roma, è preceduta da piccole
colonne, solitamente in marmo.
Stanno lì soprattutto per evitare che qualcuno si scapicolli di
sotto con la macchina, esclusiva riservata a 007.
A parte questo, però, quei piantoni bassotti sono arredo specifico
delle scalinate, con l’eccezione di quelli che cingono
qualche palazzo importante, e che a quell’occupazione prestigiosa
sacrificano, come spesso accade, anche un po’ di libertà,
condizione sottolineata talvolta dalle catene che li
collegano.
Non hanno catene, invece, questi che presidiano la sommità
delle scale e in rari casi la base, e se ne stanno in coppia, o in
piccoli gruppi, la cui ordinata equidistanza non diventa quasi
mai marziale.
In cima alla scalinata di via dei Querceti ce ne sono dieci, con
buone possibilità che si tratti del record cittadino, tanto più in
proporzione al numero degli scalini, che sono soltanto dodici.
Trovarne la metà impacchettata da lavori in corso fa pensare
a una squadra con assenze importanti, e all’attesa o al ricordo
di tempi migliori. Conferma, per chi ha dubbi, che la vita
non è perfetta.
Però fa regali, e la parziale indisponibilità di questa scala
rende più facile accorgersi che da qui se ne vede un’altra.
Solo raggiungendola si apprende che scende, insieme a una
dirimpettaia un po’ diversa, verso la basilica di San Clemente,
meraviglia mosaicale con annesso chiostro, che a sua volta
ha sei scalini affacciati proprio sulle due rampe.
È il vecchio ingresso della chiesa, diventato cortiletto di fatto,
che tanto i sampietrini quanto i piccoli mattoni dei muri
fanno sembrare esso stesso mosaico.
Da lì si può ricambiare lo sguardo alle colonnine in formazione
rimaneggiata, avendo più chiaro del solito che in città,
umani compresi, tutto quanto è tassello.
Via del Teatro di Marcello
Il Colosseo non si batte, quasi come la lupa coi ragazzini
sotto; il Gazometro brilla di fascino mutante e postindustriale,
che nella città quasi immobile sembra futuro pur essendo
passato; il Colosseo quadrato, all’Eur, seduce per
essenziale eleganza.
Ma per chi fosse in cerca di simboli un po’ meno gettonati,
le rampe appiccicate l’una all’altra, che portano rispettivamente
alla basilica di Santa Maria in Aracoeli e in Campidoglio,
sono un interessante pezzo di Roma.
Più irta e compatta di scalini l’una, assai più morbida l’altra,
che si chiama “cordonata” e quasi si può fare in bicicletta,
come a ribadire che la strada per il cielo è più tosta di quella
per il consiglio comunale.
Che infatti l’una – verticale per nome e vocazione – guarda
l’altra dall’alto in basso. Non sia mai.
L’altra, e con essa la piazza sovrastante firmata Michelangelo,
a ogni buon conto è rivolta verso San Pietro, vero centro politico
della città. Ovviamente all’epoca.
Si racconta che un tempo la scalinata dell’Aracoeli fosse da
percorrere in ginocchio, per buona fortuna dei giocatori di
lotto e delle donne in cerca di marito.
L’attiguo Campidoglio, quartier generale del Comune di
Roma, è sede ancora oggi di nozze civili; comprese quelle
omosessuali, che qualcuno fragorosamente boccia.
Il matrimonio impossibile resta così il segno, e forse il destino,
di questa strana coppia di scalinate: gemelle diverse che
nascono insieme e poi vanno ognuna per conto suo, pur rimanendo
in serrata prossimità: in pratica una marcatura a
uomo sul governo cittadino.
Le scale dirette ad Aracoeli e Campidoglio disegnano una V
in cui si biforcano il sacro e il secolare.
Non è difficile immaginarle come le gambe, divaricate, dei
piedi che Roma tiene in due scarpe, se non di più.
Via Frosinone
In Art We Trust, dice una grande pittura, visibile da via Nizza,
su uno dei muri esterni del Macro, museo per l’arte contemporanea
e un tempo odoroso birrificio Peroni.
Le memorie industriali del quartiere – birra, ma anche biscotti
Gentilini – sono però appannaggio di chi ha quasi solo
capelli bianchi, e l’arte è arrivata a smuovere un’area divenuta
nel tempo signorile fino quasi al torpore.
Non certo frenetica, via Frosinone è pressoché dirimpetto
all’entrata del museo e offre, di là da un platano più alto dei
palazzi, la visione tranquilla e quasi veneziana del ponticello
che la attraversa, incorniciato da due piccole rampe sui lati.
La strada di nome ciociaro prosegue oltre l’elegante sottopassaggio,
mentre salendo su una qualsiasi delle rampe si scopre
che quel ponte è in realtà via Savoia.
Visto da lì il seguito di via Frosinone appare come un cortile
sottostante, tanto più che dopo pochi metri un cancello
chiuso gli interrompe il cammino.
Può sembrare artistico, magari per suggestione museale, già
questo sfalsamento di piani, ma un sovrappiù di esplorazione
rivela altre porzioni di città.
Dietro i cancelli che arrestano la strada stanno architetture
nobiliari e antiche sculture, mentre a sinistra sbuca – in territorio
ancora pubblico – una scalinata che poi gira a destra.
Videocamere a parte, ne ricorda altre decine.
È il passaggio quasi segreto per via di Villa Albani, che è
anche il nome del luogo dietro i cancelli: piani alti della classifica
“tesori nascosti di Roma”, e una collezione d’arte di cui
si dicono meraviglie, forse visitabile facendo domanda ai
proprietari.
Il murale del Macro non si vede più ma sta lì, a qualche secolo
e un centinaio di metri in linea d’aria. Il contatto tra le
arti è forse possibile. Di sicuro crederci aiuta.