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Elena Stancanelli

Elena Stancanelli ci racconta il suo nuovo libro (“La femmina nuda” – La Nave di Teseo) candidato allo Strega e la sua (del libro e di Elena) Roma.





Siamo schiavi dell’ubiquità e del bisogno di controllo (della paura di perderlo). Così l’amore sviluppa tutta la nostra incapacità di credere tanto alle nuove simulazioni quanto alla vecchia realtà. In questo clima di virtualità, Elena Stancanelli mette in scena la crisi sentimentale dell’oggi. Con i suoi tic: l’ansia di dimagrimento, la malattia del cibo, l’uso di droghe e del sesso come forma di esibizione (a pensarci bene anche queste forme di (non)controllo). E con essi quello del tradimento che risponde al clintoniano perché: “For the worst possible reason: just because I could”. Ci serviamo di applicazioni per tutto anche per scoprire che siamo traditi e dove (come se avesse importanza questa malattia del sapere ad ogni costo). Chiediamo a mezzi altri – a cui poi però attribuiamo tutto il nostro reale Essere – di dirci (dicendolo prima agli altri per autoconvincerci) chi siamo e cosa pensiamo. Per coppie di opposti come nei sondaggi referendari di Facebook. Ci indigniamo virali e poi siamo pronti ad accettare qualsiasi altra atrocità non abbastanza visibile da chiedere il nostro vero pensiero. Su cosa siamo d’accordo? Per cosa siamo disposti a combattere davvero? Tutto a coppie di opposti.

Ma veniamo a Roma, la città in cui è ambientato il libro della Stancanelli. La protagonista odia il quartiere dove vive Cane, la donna che le ha rubato un fidanzato di tamburellante adulterio: “Una zona di Roma che mi ha sempre angosciato. E’ un satellite della città, unito al centro da un cavalcavia e un lungo vialone trafficato. Come i disegni degli elementi chimici”. Fosse per lei lo raderebbe “al suolo”. Ma non è il quartiere in cui s’impernia la vicenda – più quella virtuale del pallino del trova cellulare – piuttosto lo sono la Piramide e Campo de’ Fiori dove c’è il negozio di Cane, la Stazione Ostiense e l’oltre l’EUR dell’epilogo.

La città è uno sfondo significante che finisce per supportare il crescere e il precipitare della vicenda. Abbiamo pensato di chiedere a Elena Stancanelli quale relazioni accoppi la sua storia con Roma.




Il tema de “La femmina nuda” è del tutto orientato al presente e all’attualità. Nel titolo c’è la parola femmina ma credo che si potrebbe volgere…

Se stavi per dire qualcosa sul maschile e sul femminile sono già d’accordo si chiama “femmina nuda” ma rappresenta l’ossessione che è un tema intersessuale; nello specifico è esperita da una donna ma potrebbe anche esserlo da un uomo.

Il libro è molto poco consolatorio l’impressione è che, neppure alla fine, si cerchi una conciliazione.

Io pensavo una cosa abbastanza semplice: il modello sentimentale che abbiamo scelto in relazione al tipo di vita che facciamo, alle possibilità anche isteriche che la rete offre e che siamo anche abbastanza incapaci di gestire, ha qualcosa che non va. Le nostre relazioni sentimentali portano dentro di sé troppo dolore perché il modello funzioni. Vuol dire che c’è qualcosa che non va bene. E in questo penso non c’entri l’amore, non c’entri il desiderio, non c’entrino i rapporti. Quel modello lì, quel nostro modello, ha qualcosa che non va.

Il corpo, da questo punto di vista qui, funge da valvola che scatta e scattando ti fa accorgere del fatto che le cose non vanno bene: dimagrisci, ingrassi, cadi per terra, svieni, dai il tuo corpo a chiunque per dimenticare il dolore di aver perso l’uomo a cui tenevi.

Esatto. Il corpo è anche l’unico principio di responsabilità nel senso che il dolore è il confine, è un confine. Quando ti fai male, se, ad esempio, ti rompi una gamba, ti fermi. Se il corpo non c’è, come accade nello spazio virtuale, è difficile trovare il confine, la ragione per cui fermarsi e quindi vai avanti e ti addentri in questa oscurità convinto che là in fondo ci sia una casetta illuminata e invece non c’è, perché l’oscurità è semplicemente lo spazio dentro il quale continui ad addentrarti e il fondo non esiste.

Veniamo a Roma. Mi è piaciuto il fatto che tu non abbia nominato il quartiere in cui vive la coprotagonista chiamata “Cane”. Come se, in un certo senso, tu avessi perseguito la strada della rimozione nella descrizione del suo quartiere – anche se io mi sono fatto due idee…

Vediamo… che quartiere hai scelto?

All’inizio ho pensato a un quartiere dopo corso Francia ma poi nel reticolato di strade che descrivi mi è parso di riconoscere Città Giardino dopo il Ponte delle Valli.

In realtà sono vari quartieri che ho montato insieme. Non esiste direttamente questo quartiere però, fisicamente, sì, sta dove dici tu: in fondo a corso Francia. Ma è formato da pezzi di altri quartieri, non da un quartiere unico. Comunque forse la Camilluccia è il luogo a cui pensavo per la casa di Cane.

Un quartiere di una borghesia in parte danarosa anche se probabilmente espressione di una classe che è cambiata molto negli anni ed è meno costituita da “professionisti” e più da persone che hanno avuto un accesso diverso alla ricchezza.

Il quartiere che volevo raccontare ha queste caratteristiche sociali qui sì ma più che esistere davvero in quanto tale è una specie di metafora romana, una rappresentazione in toto.

Un po’ un mondo alla Walter Siti, per intenderci quello de “Il contagio”, con nuovi ricchi?

È proprio quella fascia romana che volevo raccontare. Ieri abbiamo presentato il libro con Nicola Lagioia ed è quello che ho definito “l’infinito alla portata dei cialtroni”. Nicola ha usato una bella metafora per dirlo: solo a Roma uno si può avvelenare con un’ostrica in un ristorante esclusivo all’Eur. Ecco, questa commistione di alto e di basso, l’avere tanti soldi ma poi andare a finire in un locale all’Eur a mangiare un’ostrica andata a male… Beh questo è proprio Roma, la sua cialtroneria. Ecco è come dire che in questa città sei ormai escluso dalla bellezza.

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Per ricitare Nicola Lagioia: ha scritto da poco un’inchiesta molto interessante su l’omicidio Varani. Ecco, io – un po’ meccanicisticamente – credo nella conseguenza delle azioni. Non so se per te è lo stesso ma mi viene da domandarti se e quanto in realtà tu pensi che tutto questo possa costruire un peggioramento ulteriore della città.

Se parli di padri che producono dei mostri perché loro sono a loro volta mostruosi, lo penso anch’io. Ma credo che questa città è forse irredimibile e che questo sia anche il suo fascino da Petronio in su. Sul futuro non so… non so dove andrà.

Pensi che Roma sia un po’ al fine impero: arriverà un punto morto e poi ci sarà una ripresa o finisce così?

Io credo che questa cosa qua sia proprio Roma. Ne parlavo con Silvia Ronchey che mi ricordava le cronache nei secoli. Roma, è vero, è così da sempre. Questa Suburra corrotta volgare è sempre stata Roma. Nei tempi prende le forme che il tempo le mette a disposizione ma è un po’ l’anima di questa città. Secondo me va detto questo: forse è proprio l’Occidente che alla fine dell’impero e a Roma, come è sempre stato, le cose risplendono prima e probabilmente peggiorano pure.

Tu hai scelto di vivere proprio a Piazza Vittorio, un quartiere che per molti romani e off limits: cosa ne pensi?

Ho scelto piazza Vittorio perché mi piace tanto, ci sto benissimo, però anche qua ci sono le solite cose che diciamo di Roma, in genere, i problemi di questa città. L’idea che niente può essere fatto e che tutto è vano fa sì che si rimanga in uno stato di stallo. Questo quartiere in più è un po’ più complicato degli altri quartieri, parlo di quelli del Centro. La periferia è sicuramente molto più complicata di qualunque quartiere centrale però diciamo che l’Esquilino è un quartiere a rischio e purtroppo nessuno prende delle decisioni. Probabilmente, quindi, anche questo quartiere andrà declinando. Però poi sai è così questa città: ogni tanto si dà un colpo di reni e si riprende. Quello che non sa fare, invece, è valorizzare le proprie potenzialità. L’Esquilino sulla carta è meraviglioso: se fossi sindaco un quartiere come questo lo farei diventare il simbolo di questa città perché è un quartiere dove c’è immigrazione, dove ci abitano artisti – ci sono un premio Oscar e due premi Strega a distanza di 150 metri l’uno dall’altro – c’è una vita attiva allegra. Ma nonostante noi ci siamo proposti in vari modi per aiutare, per dare una mano, per spiegare delle cose e farne delle altre nessuno ci ha ascoltato.

Citavi autori come Francesco Piccolo, Nicola Lagioia, Sorrentino… ma oltre a un clima c’è anche una relazione tra voi?

Diciamo che Roma come sai è complicata per gestire le relazioni. Continuo a pensare che ci sia una relazione tra queste persone che lavorano. Da questo punto di vista io sono anche una privilegiata: vengo da un’esperienza – quella della rivista “Accattone” – in cui ci siamo conosciuti facendo, amando e adorando questa rivista e lì improvvisamente di nuovo tantissimi scrittori si sono incontrati e si sono parlati confrontandosi, facendo una cosa insieme. Ecco, mi è rimasta molto questa voglia di fare insieme. Come ad esempio per i “Piccoli Maestri”.

Una domanda sulla tua fiorentinità è un posto dove ritornerai?

È un posto che mi è appartenuto poco anche quando ci vivevo. Appartiene un passato che non ritornerà mi sono sempre più sentita romana anche quando ero fiorentina. Roma per me è come una New York. Io ero a Firenze al liceo e pensavo “devo andare a Roma”. Roma l’ho vissuta così veramente come il posto dove io volevo andare a vivere per sentirmi al centro del mondo. No, non credo che ritornerò mai a Firenze.

Founder e direttore di "Perdersi a Roma" collabora con Il Messaggero, il Venerdì e Nuova Ecologia. Ha pubblicato libri di prose, poesie e narrativa di viaggio tra cui "Letti" (Voland), "AmoRomaPerché" (Electa-Mondadori), "La gioia del vagare senza meta" (Ediciclo), "Fùcino" (Il Sirente), "Il mondo nuovo" (Mimesis), "Andare per Saline" (Il Mulino) e "I segni sull'acqua" (D editore).