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Etruschi to be

Etruschi, to be. Una guida per sentire su di sé il senso di questa appartenenza perduta. Da Paolo Ciampi, un nuovo libro di cammini: “Un popolo in viaggio” (bottega errante).

Più che perduta sarà poi il caso di dire evanescente e incerta. Come se non fosse mai esistita. Ciampi ci guida nell’universo di un popolo scomparso ma a piedi. I suoi piedi quelli che danno l’avvio alla storia degli etruschi insieme a Bassani e con i maestri archeologi Pallottino – il padre moderno dell’etruscologia – Ceram e tanti altri.

D’altro canto, chi ama queste terre di Maremma  – una parolaccia in bocca a tutti i toscani e non solo – non può rimanere insensibile alle sue origini misteriose. Lo scrittore ci conduce passo passo e mano nella mano per il mistero senza mai aria supponente ma piuttosto incantata e pronta alla sorpresa. Ve ne offriamo un saggio (in uscita da Capalbio) ringraziando editore e autore.

Scuoto la testa, preferisco occuparmi di altro. Capalbio è bella, Capalbio sono le sue mura medievali e il panorama che si allarga intorno. Contemplo quest’ultimo lembo di Toscana e il primo Lazio poco più in là, di nuovo questo confine che non conoscevano gli etruschi: la prima civiltà davvero italiana, benché da toscano mi piaccia tenermela stretta.

Un moto d’orgoglio lo provo comunque per la mia terra culla degli etruschi e secoli più tardi anche del Rinascimento: bis da applausi, sempre nel segno dell’amore per la bellezza e di una primavera dello spirito.

Suppongo che ci sia qualcosa che leghi questa geografia all’arte che qui è stata prodotta. Magari è ancora fonte di ispirazione.

Lo diceva Piero Calamandrei, uno dei padri della Costituzione italiana, in Inventario della casa di campagna, libriccino che in un Natale di guerra dedicò agli amici, parlando loro di infanzia, di luoghi cari e anche di etruschi: «Nella misura di questi panorami è il segreto della loro pensosa civiltà».

Chiudeva così il cerchio che John Ruskin, il grande critico d’arte dell’Inghilterra vittoriana, aveva cominciato a tracciare il secolo prima ragionando sul Rinascimento: «Giotto e i primi scultori sembrano essere stati un nuovo fiorire del sangue etrusco che fa incessantemente sbocciare i fiori».

Poi a forza di contemplare questa arte remota – strappata al sonno dei defunti – capita di finire di balzo nelle gallerie del Novecento. Come quando nel 1916 tornò alla luce l’Apollo che a Veio adornava il tempio consacrato a Mercurio: la sua bellezza spiazzante, fuori dai canoni, sedusse e sollecitò gli artisti del tempo.

Dieci anni più tardi Novecento italiano, il movimento animato da Margherita Sarfatti, lo scelse per i manifesti della prima mostra. A partecipare c’era gente come De Chirico, Carrà, Balla, Depero, Severini, solo per dire.

Sì, il Novecento è pieno di artisti italiani – toscani e non – folgorati da questo popolo. «Io sono il vero etrusco – proclamò Arturo Martini – loro mi hanno dato un linguaggio e io li ho fatti parlare». Un altro scultore, Marino Marini, rivendicò addirittura un’appartenenza: «Io sono etrusco! Lo stesso sangue riempie le mie vene. In me rinasce l’arte etrusca».

Ciò che rimane, ancora. L’arte, un buon punto a favore per ciò che dura, che può durare.
Così vorrei saperne di più su Mario Schifano, con gli etruschi che tra Pop art e trasgressione gli erano entrati sotto pelle, spiegò lui, già dal tempo in cui lavorava come tecnico disegnatore al museo di Villa Giulia a Roma.
Di più su Michelangelo Pistoletto, che interpretò a modo suo proprio l’Arringatore, riproponendolo dorato e riflesso a uno specchio.

E di più anche su Alberto Giacometti, che no, pare che non abbia inseguito quel capolavoro che è l’Ombra della sera, quel giovinetto nudo e allungato, quasi filiforme, che da Volterra, anzi, da Velathri, ancora sembra porci le questioni ultime della vita e della morte. In apparenza opera di oggi, anzi, opera di Giacometti, così come certa arte africana evoca già Picasso e Matisse.