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Fiori cose e città: la poesia come soluzione

Fiori cose e città: la poesia come soluzione è uscito in una versione più breve su HuffPost e racconta delle recenti uscite dei versi di Luciano Erba e William Carlos William e dei luoghi che raccontano.

L’uscita di “Paterson” di Jim Jarmush – un regista mai banale e riducibile – qualche anno fa aveva acceso o riacceso nel mondo l’interesse per la poesia di William Carlos Williams, un poeta americano che in Italia però scoprimmo mancare dagli scaffali da un po’, almeno per quel che riguardava la poesia. La corsa alla bancarella o al remainders fu la non soluzione di quell’ansia. La poesia è così: quando non c’è manca, quando la cerchi senza trovarla ti rendi conto non di quanto è preziosa (facile retorica) ma proprio esattamente di quello a cui serve davvero, qual è il suo specifico.

Già il titolo del film citava un poema di Williams ma i versi che punteggiavano il film come i pois disegnati dalla protagonista erano di Ron Padgett ovviamente e non dell’attore, il bravo Adam Driver.

Chiusa la parentesi introduttiva. Volevo parlarvi di due volumi di versi da poco usciti di cui WCW sarà solo il secondo. Ne volevo scrivere non dal punto di vista dei versi in sé ma dei luoghi di cui raccontano.

Diversamente ma per entrambi questi libri e questi poeti gli spazi hanno un notevole peso immaginifico.
Inizio da Luciano Erba, un poeta che più passa il tempo più si candida a diventare un classico uscendo dalla nicchia che lo condivide e lo ama.

Eppure non sono mancati premi nella sua biografia – Viareggio, Bagutta e Librex-Montale – e i suoi versi hanno la scioltezza ironica e pensosa che hanno, per dire, quelli del popolare recente scomparso Charles Simic.

Di Erba Mondadori Oscar (Baobab) ha ora mandato in libreria l’antologia completa dei suoi versi, “Tutte le poesie”, e vale la pena acquistarla nel suo grande formato economico e cartonato.
Nato, vissuto e morto a Milano, città investigata fino al transfert (“perché a Milano, per biliardo che sia / vi sono strade in salita e in discesa / più frequenti nei sogni e nei ricordi”) ha dedicato agli spazi molta della sua attenzione ispirativa.

I luoghi delle poesie di Erba alternano il molto vicino del quartiere Solari o del nativo Magenta visto nelle sue e nostre trasformazioni e “sogni mancati” (“Un tempo era abbandonato / più a se stesso (…) Un tempo ero lasciato a me stesso”) e il lontano del New Jersey o di Sasebo, Tel Aviv, Chicago o il Quebec o Takla Makan.

Spesso un luogo porta in un altro luogo discontinuo (“È una via di Milano / e veloce / vado verso l’oriente”) o si confondono in un odore: “anche in città fanno fuochi di stoppie” (“Autunno a Milano”). E questo dimostra quanto nessun luogo si esaurisca mai davvero per dirla à la Perec.

Genova è anticipata dal Po e da Ticino e dai tunnel in una visione dal finestrino che rappresenta un topos dei viaggi poetici di Erba. Attenti sempre alle presenze apparentemente dimesse come “ad esempio loro, i piccioni in città / e altre cose che non si capiscono / che non si riescono neanche ad immaginare”.
“Un cosmo qualunque” recita il titolo di una poesia che suona quasi manifesto del poeta e canto delle “cose senza prestigio”, “oggetti senza design” a cui aspira Erba. Quelli che “forse meglio di altri / esprimono una loro tensione / un’aura, si diceva una volta”.

Ma ritorniamo a William Carlos Williams e alla recente raccolta antologica che esce per Bompiani dal titolo “A un discepolo solitario”. La cura del volume è di Luigi Sampietro e la traduzione di Damiano Abeni.

La poesia di WCW disegna dal punto di vista degli spazi un unico grande luogo naturale, solo in apparenza astratto pur nella concretezza.
Se gli spazi di Erba hanno spesso una longitudine e una latitudine precise salvo poi distillarle nell’introspezione, quelli della poesia di William Carlos Williams, un poeta americano che mancava dalle librerie da un po’, almeno da quando, come si diceva, usciva “Paterson”, invece, lasciano di fronte a un luogo universale e oggettivizzato.

Breve parentesi ad uso di neofiti e affezionati, non professionisti. La poesia è una porta per tutti. Ognuno sceglie poi in quante stanze passare e quanto fermarcisi ma attenzione a quelli che si propongono come “sacerdoti” e buttafuori (o buttadentro). Sono solo persone – a pensar bene – che hanno deciso di esplorare più stanze e fermarcisi di più di altri (sperando di non dover dire troppo). Il film di cui dicevamo aveva appunto questa grazia della celebrazione di una poesia come ispirazione eventuale per un semplice guidatore di bus.

Dicevamo di Williams e della sa recente uscita nelle librerie e storore italiani. Siccome c’è un 3 nel suo anno di nascita e anche in quello di morte questa nuova edizione è comunque oltre che una notizia l’indice di un duplice anniversario che cogliamo benaugurante.

WCW era un medico e come tale doveva partire da una anamnesi. Anche nei versi non si fa troppe illusioni di partenza e non è un idillico prima della analisi “ma / non credere che possiamo vivere / oggi in campagna / perché la campagna non ci darà / alcuna pace”.

La pace sembra dire è un atteggiamento dello spirito di cui molti suoi versi trasudano.
Come nel caso di “Pastorale”: “I passerotti / saltellano / ingenui / sul selciato / battibeccando / con stridule voci / sulle cose / di loro interesse. / Ma noi, più saggi, / ci racchiudiamo / in una mano o nell’altra / e nessuno sa / se pensiamo cose buone / o cattive”.

Anche lo spoglio dei propri sentimenti è chirurgico.
“Quando sono solo sono felice./ L’aria è fresca. Il cielo ha / lentiggini e strie e ferite / di colore” scrive in “In attesa” .

Verrebbe da pensare che sia un cantore solo della campagna ma i suoi versi sono spesso un “Avvicinamento a una città” come recita il titolo di una sua poesia “Cercare di comprendere il mondo – / non mi stanco mai del mistero / di queste strade”.

In generale, per Williams vivere la natura, respirare il giorno è pervasivo e conflittuale “Ecco perché un match di pugilato e / le poesie cinesi sono uguali” scrive e offre anche una sua specie di lezione di scrittura dal titolo “Una specie di canzone”. In essa invita a una scrittura “di parole, lente, svelte, acuminate / nello sferrarsi, mute nell’attesa, / insonni” . E poi un monito: “Componete. (Niente idee se non nelle cose) Inventate!”

Il fiore preferito dal poeta è la sassifraga ed evidentemente è una posizione etica non estetica: “è il mio fiore, spacca / le rocce”.
Certe poesie sembrano studi di figura come nella poesia “Il toro”: “È in cattività – / anello al naso, cavezza al collo, incatenato / a un erpice pesante / il toro è divino”. O, descrizioni come “Buon lavoro con pece e rame”.

Certe altre contengono proclami o inviti performativi “Sciogli il tuo amore / che fluisca!”
“Williams non era un intellettuale” spiega nell’introduzione Sampietro “ma possedeva uno straordinario talento poetico, ed era uno scrittore del quale la pratica è sempre venuta prima della grammatica, e che credeva in una poesia in cui l’atto stesso di citare, ovvero nominare un oggetto comportasse un atto di partecipazione”.

Perché la vita, quella vera, è partecipazione come lo era quella sua professionale – di medico, si diceva (aiutò più di 2 mila bambini a venire al mondo) – che si insinua con dolcezza sofferta e casuale nei versi come in “Il neonato morto” dove una mano spazza con apparente solerzia una stanza (“fare piazza pulita / è un modo per esprimere il tutto – “) ma poi il tempo incalza anche questi gesti di cura incurante: “In fretta! da un minuto all’altro / lo porteranno / all’ospedale – / miniatura bianca delle nostre vite / attrazione / immersa in fiori freschi”.

Di fiori (come di piante) ce ne sono un bel po’ nella raccolta e di fiore in fiore si computa il mistero perpetuo universale: “Miracolo / che un fiore sorga / da fiore / simile in amorevolezza” (“Il ciclamino cremisi” è una sorta di fotografia time-lapse). Come in un trattato di fotografia, autocad o botanica, WCW si e ci pone davanti a quello che esiste – fiori cose e città – invitandoci a una osservazione oggettivamente sensibile. In fondo la poesia questo è: la rapida e mirabolante avventura dell’istante raccontata in una sintesi irriducibile.




Di roberto carvelli

Founder e direttore di "Perdersi a Roma" collabora con Il Messaggero, il Venerdì e Nuova Ecologia. Ha pubblicato libri di prose, poesie e narrativa di viaggio tra cui "Letti" (Voland), "AmoRomaPerché" (Electa-Mondadori), "La gioia del vagare senza meta" (Ediciclo), "Fùcino" (Il Sirente), "Il mondo nuovo" (Mimesis), "Andare per Saline" (Il Mulino) e "I segni sull'acqua" (D editore).