racconti

Il Conservatorio di Santa Cecilia

“Come le stelle fisse” (Edizioni Empirìa) di Raffaella D’Elia, da cui offriamo una lassa di testo dedicata al Conservatorio di Musica di Santa Cecilia a Roma, in via dei Greci, è un libro pieno di prodigi.

Il primo prodigio è quello della prosa e della sua musicalità, qui non a caso riverberata da una pagina consonante perché dedicata al luogo par excellence della musica romana. L’altro prodigio, e viene ancora prima, è già l’incontro. Difficile per il tramite di un editore molto valoroso ma piccolo. Quel che viene dopo è un a tu per tu con la scrittura ed è un prodigio sorgivo. Quello della D’Elia è, infatti, uno di quei libri che avvince in una rete (azzeccata l’immagine di copertina) di senso e suono che fa sussultare un lettore al suo primo avviso: la copia tra le mani e la sensazione che questa fortuita connessione abbia un che di fortunato e speciale. Aiutano a pensarlo la irriducubilità del testo sempre più rara nel mercato editoriale: saggio? poesia? narrativa? E una lingua così precisa, così musicale – appunto – da far pensare alla lunga e paziente orchestrazione della scrittura. La questione non secondaria è che il testo qui citato coglie lo spirito della flânerie a cui questo sito si ispira. Difficile è stato selezionare un tratto di questo andare. Preferire via del Corso alla Nomentana, Frascati a Fregene. E difficile non pensare, nel pubblicarlo, come a un oggetto delicato che finendo nel corpo di un sito potesse, per così dire, rischiare di subire un’uscita da sé. Ma volevamo condividere il piacere della lettura.

Il Conservatorio di Santa Cecilia
di Raffaella D’Elia

L’altro giorno, invece di lasciarsi guidare in quel pellegrinaggio
che ogni giorno la fa svoltare davanti la chiesa di S. Agostino, raggiungere
il muretto tutto intorno al Pantheon dove mangiare seduta
qualcosa, per poi spingersi verso Via del Corso, ha deciso di andare
nella direzione opposta.

Lasciata alle spalle Via dei Pianellari è passata davanti la chiesa
dei Portoghesi, e si è lasciata condurre dalla figura imponente, visibile
già dalla metà di via della Scrofa, dell’Ara Pacis.

Da Via Ripetta, oltrepassato il semaforo di un lungotevere, è
approdata davanti l’Accademia di Belle Arti. Faceva caldo. La gente
mangiava nei ristoranti all’aperto, in quelli al chiuso, lei camminava
spedita in cerca di Via del Babuino. Doveva calcolare quanto
tempo avrebbe impiegato per arrivare in una libreria, per capire
orari e tempi e partecipare, dopo il lavoro, alla presentazione di un
libro. Ma appena arrivata in Via del Corso, condotta senza neanche
accorgersene da una viuzza piccola e impertinente che da Via
Ripetta l’aveva quasi spinta nel frastuono dei negozi di una strada
caotica e non amata, si era ritrovata giusto giusto in quella via.

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Era la via che per anni aveva rappresentato il tragitto da e per la
sua casa, fuori Roma. Le stesse vetrine eleganti e luminose proiettavano
le stesse passeggiate, ora come allora. Se avesse osato volgere
il suo sguardo verso destra, avrebbe intuito quel grande monumento
che era diventato per lei un luogo familiare, una rassicurazione,
quasi un punto cui rivolgersi come una fonte di tranquillità, una
certezza incrollabile, immutabile, inestinguibile nel tempo.

Ed era fuggita. Aveva tagliato per non ricorda quale vicolo, non
aveva retto la tensione, e si era ritrovata di fronte una piccola via,
in realtà non tanto piccola. La scritta indicava “Via Margutta”.

Quel giorno, quella passeggiata in Via Margutta, mentre spiava
nei piatti di un ristorante vegetariano all’aperto, nei cancelli degli
appartamenti e delle case silenziose e signorili, nelle gallerie d’arte
e nei negozi di antiquariato, mentre si lasciava incantare dalle piante
rampicanti che si disegnavano e allungavano tutte intorno alle
mura, alle finestre, ai portoni di quella strada incredibilmente silenziosa
e tranquilla, avrebbe capito che quella deviazione improvvisa,
repentina, quel vagare solitario in quell’ambiente protetto dal
verde, dal rumore e dal chiacchiericcio che solo poco più in là animavano
il centro della città, forse era capitata per caso, ma proprio
quell’indugiare per qualche tempo in quell’ambiente riparato, le
avrebbe consentito di predisporsi meglio al contraccolpo.

copertina delia

Quella via così silenziosa e rarefatta, dall’aria così vaga, quasi
sul punto di sparire da un momento all’altro, la accoglieva e preparava
a quell’attività che in una mite giornata di ottobre, durante
una passeggiata nel centro di Roma, l’avrebbe confusa e disegnata,
fatta confondere e ritrarre, fra quelle stesse mura, quelle stesse strade,
con tenacia e levità, come uno scherzo del destino.
Come in un declinarsi anomalo e bizzarro della sparizione, l’avrebbe
aiutata a scomparire.

Giro in Via del Babuino e mi cerco e mi trovo mentre la strada
piena di gente e rumore mi rimanda alla confusione di quando giravo
in via del Babuino e svoltavo in Via dei Greci
Giro in Via del Babuino, mi cerco, mi trovo mentre la strada
piena di gente e confusione me la lascio alle spalle e mi dirigo in
via dei Greci, la strada percorsa per anni con lo sguardo rivolto al
cielo ogni volta che arrivavo e partivo
Giro in Via del Babuino e cammino con lo zaino, la borsa, i libri
di piano, quelli di solfeggio, e cammino spedita per raggiungere
il portone con le porte di vetro e la bacheca trasparente dalla
quale guardare trepidante le date gli appelli gli orari degli esami
Giro in Via del Babuino e mi ritrovo in Via dei Greci, le piante
rampicanti svolazzano per la via

mi affretto per raggiungere il Conservatorio e il contraccolpo mi accompagna mentre cammino in Via dei Greci e procedo ascoltando gli esercizi di pianoforte scendere o salire dalle finestre di un terzo o quarto piano, la mano va lenta, decisa ma timorosa, si producono
errori ma non bisogna fermarsi

e mentre cammino in Via dei Greci quel pianoforte svela e racconta
della tecnica pianistica, degli esercizi male e bene eseguiti
con la gravitazione sulle dita e sul polso, dal basso e dall’alto, per
fare dei buoni abbellimenti le dita devono rimanere slegate, sciolte,
non rigide

la principale causa di un cattivo abbellimento è la rigidità delle
dita e del polso
gli esercizi di gravitazione da seduta, in piedi, dall’alto e dal basso
tratteggiavano gesti ed azioni confinati nell’aula sei, dal pavimento
in legno e le grandi finestre aperte sui tetti di Roma
ora mi aggiro come un abbellimento mal riuscito, i capelli si alzano
al vento, si arricciano, svolazzano – sono piante rampicanti
intorno ai pentagrammi, le linee, gli spazi

a causa di una mancata pratica pianistica quotidiana si osserva
un difetto gravitazionale e mi esercito sui toni e i semitoni mi impegno
per raggiungere una buona esecuzione ma emerge una serie
di modulazioni spezzate interrotte cosa c’è che non va è la mancata
conoscenza degli accordi che impedisce di passare da uno stadio
all’altro, da un tono all’altro

gli arpeggi procedono spediti a tracciare una litania del contrappunto,
le modulazioni mancate divengono sincopi, il pezzo
che vado suonando è una serie infinita di alterazioni inutili sbagliate
e mi arriccio e mi distendo seguendo il profilo della chiave di
violino

cammino in Via dei Greci e torno al tempo delle lezioni pomeridiane
e serali, mi concentro e rilasso, eseguo un trillo come meglio
mi riesce, dalla borsa escono fuori l’Hanon e il Traumerei, mi
confondo e mischio fra quell’insieme di note e suoni, mi solfeggio
ed esercito mi lascio solfeggiare ed esercitare ma il suono che emerge
non riesce a stabilirsi sulla giusta tonalità è una serie infinita di
prove, false partenze, acciaccature perfette in esecuzioni sbagliate, e prima di giungere davanti la porta di Santa Cecilia sono già troppo
compromessa per poterla varcare e dare inizio alla musica del
tempo andato, e desisto, e rinuncio, e fuggo via

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mi confondo, mi mischio alle lezioni mai imparate del passato,
mi sbiadisco alla ricerca di una partitura introvabile, irrintracciabile,
e scompaio, e mi perdo
lascio Via dei Greci e raggiungo Via del Babuino, passo come
un’ombra davanti allo specchio che quindici anni fa registrava il
mio volto bambino uguale e diverso osservarsi e scrutarsi prima e
dopo ogni lezione
e perdo la mia scommessa col visibile

raggiungo la grande piazza che mi accoglieva ogni volta che
uscivo dalla metropolitana, in mezzo una vita scandita da giorni,
mesi, anni invisibili, e fotografo quel luogo per potermi ricordare
come era rivederlo dopo la sequenza dei giorni persi e sfiatati affastellati
gli uni sugli altri, per sancire quanto quanto fosse uguale e
diverso, lo fotografo per poterne distillare la sostanza del reale, sottrarla, rubarla, appropriarmene indebitamente, aggrapparmi all’unica
esperienza concreta e tangibile rintracciabile in una mite giornata
di ottobre, trattenerla, catturarla, allontanare l’aura di vaghezza
appiccicata alla mia fisionomia, contrastarla con un gesto capace
di assorbire ed annientare la vocazione all’invisibile, il mio nascondermi
e confondermi tra le pieghe del tempo, restituirmi nitore,
realtà, centralità

e rendermi tramite, proprio io che fatico a credermi, a credere
di stare vivendo, per una testimonianza duratura e ineccepibile, del
tempo e della sua linearità, dell’essere e della sua ineluttabilità.
Prendo la macchina e scatto. Sarà un documento infallibile, una
attestazione immancabile, un indizio sicuro, incontrovertibile.

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Raffaella D’Elia (Roma, 1979) ha pubblicato “Adorazione” (Edilet, 2009, prefazione di Emanuele Trevi). Collabora con diverse riviste letterarie fra cui “l’Indice dei libri del mese”, “Alfabeta2”, “Nuovi Argomenti”. Suoi contributi critici sono presenti, tra gli altri, in “La terra della prosa. Narratori degli anni zero” e la riedizione del volume “Gruppo 63. Il romanzo sperimentale” (L’orma, 2013).