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Resilienza? No, ti prego! O forse sì…

Esce “Option B” (HarperCollins) di Sheryl Sandberg e Adam Grant, un modo per riappacificarsi con l’abusato concetto di resilienza.

La parola “resilienza” mi suscita un dissenso profondo. M’incanta il significato, la trovo preziosa nel senso che esprime. Ma non posso non metterla in associazione a una vulgata da ufficio di trita e vacua retorica catechistica.

Nei miei vari cambi di occupazione ho dovuto arrendermi a una legge di grande probabilità scientifica: chi ti invita a essere qualcosa di meglio per te in realtà ti sta per fregare.

Anni fa, in un’azienda gestita in un modo totalmente padronale, il suddetto padrone rimase folgorato da un suo viaggio in Giappone e tornò infatuato da modalità aziendaliste nipponiche. “Lì persino chi risponde al telefono sa quali sono gli obiettivi dell’azienda!”. Era entusiasta. Ma dimenticava di riflettere su quanto poco avesse la sua gestione in comune con quella dei vari capitani d’industria del Sol Levante. Intimidatoria, ricattatoria, penalizzante. Erano gli aggettivi della sua di gestione: poco a che vedere con gli inchini nipponici.

E, pochi anni dopo, in barba a qualsiasi legge, stava per fare entrare un raccomandato in una posizione contrattuale che fino a quel momento aveva escluso per gli altri. Poi dici: te lo dò io il Giappone!

Lì la meritocrazia imperversa trasversale. Lo racconta bene, ad esempio, Cees Nooteboom nella sua raccolta (“Cerchi infiniti”) di viaggi in Giappone pubblicata da Iperborea. A un certo punto c’è un operaio che rifiuta un premio perché dice di essere stato malato per un lungo periodo durante l’anno e di non meritarlo in conseguenza delle sue minori ore di servizio all’azienda. Il manager insiste, lui insiste. Non c’è verso, lui dice di non meritarlo. Certo, è chiaro, ci deve essere un patto sociale per far funzionare un’organizzazione del genere.

Il resto della mia esperienza mi ha portato in altre aziende ma un certo paternalismo più bonario ma sempre monodirezionale (la direzione immagino siate capaci d’intuirla) mi ha fatto capire che tutto il mondo è paese. E se pensate che il paese in questione sia il Giappone, beh, siete fuori strada. Magari il paternalismo può farsi più dolcificato e verboso ma il risultato non cambia. E spesso le penalizzazioni rimangono tali anche se servite con al fianco qualche sorriso (talvolta di troppo, specie quando il tempo inizia a congiurare contro).

Confesso che talvolta mi sono sentito un “prigioniero politico”. Confesso talvolta ho pregato che arrivasse qualcuno a sollevare il dittatore tanto amato e a liberare noi vittime della sua dittatura, facendo giustizia dei carcerieri a lui devoti. Ma qualcosa di simile alla parola che non dico mi ha salvato.

Sempre e comunque la parola che mi veniva detta (“resilienza”) mi ha viaggiato a fianco perdendo negli anni tutta la sua naturale forza propulsiva. Almeno quanto proattivo, fare squadra, ragionare per obiettivi. Ah, ufficio, quanta misera vita!

Eppure, senza chiamarla con lo stesso nome, la resilienza sì, spesso mi ha salvato la vita.

A dispetto di ogni mia resistenza alla resilienza ora è uscito per HarperCollins un libro che si presta a farmi rappacificare con la parola dalla prospettiva del suo senso più vero. E se lo leggete capirete come la parola che non vogliamo dire l’ha salvata ad altri.

Sarà in libreria dal 21 settembre. Il titolo “Option B” (HarperCollins) fortunatamente non getta brillantini in faccia la lettore ma possibilità. Il sottotitolo originale – inespresso in italiano – recita “Facing Adversity, Building Resilience, and Finding Joy”. Ne sono autori Sheryl Sandberg e Adam Grant. Nella vita Sheryl, direttore operativo di Facebook, era sposata. Poi, l’improvvisa morte del marito (David Bruce Goldberg), l’ha gettata nella disperazione più totale. E la resilienza le ha salvato la vita grazie al coautore Adam, psicologo e docente alla Wharton Business School dell’Università della Pennsylvania, editorialista del New York Times e autore del libro “Essere originali. Come gli anticonformisti cambiano il mondo”.




Come si esce da un grande dolore? Come si sopravvive a un fallimento? I due autori, citando Seligman, parlano di 3P:

1) Personalizzazione, la convinzione che la colpa di qualcosa sia nostra; 2) pervasività, la convinzione che l’evento influenzerà ogni aspetto della nostra vita; 3) permanenza, la convinzione che le ferite lasciate dall’evento non si rimargineranno mai.

Indubbiamente è il trauma della separazione a fare la parte più importante nel libro. Sheryl parla della sua e di quella di personaggi che ha cercato a caccia di esperienze di resilienza come una dell’ex campione di football americano Vernon Turner sopravvissuto alla morte di una mamma vittima di violenza (lui ne era il frutto) ed eroinomane che scrisse:

Dovevo farcela, altrimenti i miei fratelli sarebbero stati dati in affidamento. Non sarei diventato il prodotto del mio Dna, bensì il prodotto delle mie azioni

Il libro si presta ad essere una sorta di viaggio d’uscita dal dolore passando per esperienze anche molto famose come quella di Helen Keller che diceva:

Quando si chiude una porta per la felicità un’altra si apre, ma spesso siamo talmente concentrati a fissare la porta chiusa da non vedere quella che ci è stata aperta.

Sono ben consapevole che tutto questo a lettori più smaliziati potrà apparire melenso e al profumo di autoaiuto, ma le finalità benefiche e la sincerità delle premesse valgono un atto di fiducia di lettura. Corroborato dall’anglosassone stile esperienziale che finisce per rendere il libro fortunatamente speculativo, il tema è comunque utile.

Il post-trauma ha bisogno di un’inversione di rotta non di un’attesa:

Anziché aspettare il momento giusto per tornare ad apprezzare le piccole cose, dovremmo andare avanti e fare quelle piccole cose che ci rendono felici.

Sheryl Sandberg e Adam Grant spostano continuamente il punto di vista incrociando dati e storie dissimili cercando l’origine della soluzione del dolore:

Se per me scegliere l’opzione B significava soltanto affrontare la morte di mio marito, per i rifugiati significa dover sopportare una perdita dopo l’altra: la perdita di una persona amata, della propria casa, del proprio Paese, e di tutto quello che è familiare.

Non solo impariamo molte cose da un fallimento, ma ne impariamo ancora di più da un grosso fallimento perché tendiamo ad analizzare con maggior attenzione ogni minimo dettaglio. È questa la conclusione a cui arriva un’analisi delle fallite operazioni di lancio spaziale. Per questa stessa ragione anche nel mondo societario o aziendale bisogna far tesoro di un fiasco, un errore o una tragedia, le organizzazioni possono prendere decisioni che impattano sulla velocità e sulla forza della loro ripresa, determinandone spesso anche la sorte.

Dice Sheryl che, nelle stanze di Facebook quando era stata assunta, campeggiava questo cartello: “Sii veloce e spacca ogni cosa”. Lei sottolinea: “Lo pensavamo veramente”. Il punto quindi non è affiggerlo nelle stanze dei dipendenti, ma metterli in condizione di crederci davvero. Diversamente è una tragedia senza proporzioni. Poi racconta di tale Ben che mandò il sito Fb offline una mezz’ora per tentare un esperimento audace e venne lodato (e assunto) e da quel tempo il suo nome è stato associato a una fase di test. Il test di Ben.

Abbiamo tanto da imparare? O meglio: abbiamo tanto da dimenticare? Qualunque sia la vostra risposta forse è arrivato il momento di spaccare ogni cosa ed essere veloci nel farlo. Prima che tutto questo ci rotoli addosso rovinosamente e definitivamente.




Founder e direttore di "Perdersi a Roma" collabora con Il Messaggero, il Venerdì e Nuova Ecologia. Ha pubblicato libri di prose, poesie e narrativa di viaggio tra cui "Letti" (Voland), "AmoRomaPerché" (Electa-Mondadori), "La gioia del vagare senza meta" (Ediciclo), "Fùcino" (Il Sirente), "Il mondo nuovo" (Mimesis), "Andare per Saline" (Il Mulino) e "I segni sull'acqua" (D editore).