Un ricordo del Maestro Gentile, Ugo Gregoretti, del nostro Roberto Carvelli.
Sono stati pubblicati tanti ricordi in questi giorni di Ugo Gregoretti, scomparso lo scorso 5 luglio.
Fateci
caso, la natura intrinseca dei necrologi è farci capire chi era in
vita, lo scomparso. Tanti messaggi ripetuti dal linguaggio scabro e
l’esposizione di nomi, e “piangono” uguale uomini di potere la cui
stella non si è ancora spenta e non si spegnerà essendo parte di un
sistema più che di una qualità personale che ne farà durare l’influenza.
Pochi
o molti ma accorati pensieri, personali, vivi, sono il segno invece di
quelle morti che lasciano un vuoto. Non di potere, non di convenienze,
ma una mancanza reale che spesso va al di lĂ della fisicitĂ e
dell’attività di quegli stessi e, quindi, sono pensieri che non cercano
restituzioni, interessi.
Dentro questi necrologi si celano le
prove dei cosiddetti maestri, persone che, oltre al vuoto momentaneo,
hanno lasciato il segno di un superamento dell’immediatezza non più
compensabile.
Sono stati pubblicati tanti pensieri, attestati di
stima, memorie su Ugo Gregoretti a cui mi piace aggiungere la mia.
Fugace ma bella. Indicativa di una personalitĂ obliqua e mai conclusa in
una risposta facile, un giudizio, un bollo con scritto ammesso o non
ammesso, di cui mi sembra sia prova la sua intera produzione. Motivo per
cui io penso che vada scritto a fianco a Ugo Gregoretti, Maestro.
Correva
l’anno, non ricordo, Gregoretti era in giuria al Premio Solinas per il
cinema – si gareggia(va) a soggetti per proporre una storia per un film –
e io partecipavo in coppia con una collega scrittrice. Parliamo forse
di una ventina di anni fa o qualcosa meno.
Gareggiavamo in
centinaia. Di solito quel premio però si vince in cinque. Se sei nella
cinquina hai per così dire ottenuto il risultato massimo che – non
ricordo ora – forse può essere coronato da un’ulteriore coccarda di
primo tra pari. Ma la cinquina, per capirci, era il premio.
E,
invece, quando uscirono le designazioni, noi tra quei cinque non
c’eravamo. E, come si dice, bon, ce ne facciamo una ragione. Io e la mia
amica eravamo – e abbiamo mantenuto quello stile – degli outsider. Tipi
che non andavamo troppo in giro a farsi amici, a fare cose e vedere
gente per i vantaggi conseguenti.
Qualche giorno dopo veniamo
raggiunti – io per la precisione – da una telefonata a casa (cellulari
non ce ne erano) di Ugo Gregoretti che, con la sua voce gentile ma
tenue, diceva una cosa così: “salve sono Ugo Gregoretti, vi volevo fare i
complimenti per il vostro soggetto. L’ho letto e mi sono battuto come
un leone per farlo entrare nella cinquina ma non sono riuscito,
purtroppo”.
“Il Cinema Italiano – si riferiva al cinema di quegli
anni, al premio che lo rappresentava diventando spesso quei soggetti
film prodotti e distribuiti – cerca sempre storie due camere e cucina,
l’ironia non è premiata, inseguire la strada del comico e del surreale
come avete fatto voi non premia ma avete scritto per me il soggetto
migliore. E, per questo, voglio cercare di aiutarvi lo stesso”.
Così
mi mette in contatto con quello che del film sarebbe stato nella nostra
scrittura (in pratica vi era nominato) il protagonista. Si trattava di
un attore napoletano allora come ora molto in voga, apprezzato,
applaudito. A lui parla di noi, così io gli spedisco il soggetto che,
appunto, lo vedeva protagonista vero (autofiction inventata nella
fiction) dell’ipotetico film.
L’altro protagonista era un critico,
cultore del cinema anche lui molto in voga, un genio della
rappresentazione del cinema e di sé nel cinema. Quest’ultimo fu molto
gentile, collaborativo e disposto ad avanzare il progetto. L’altro che
incontro dietro le quinte del Teatro Eliseo, in un pomeriggio di prove
eduardiane, mi sembra, dopo aver letto il soggetto, invece, mi
aggredisce offendendomi e tacciandomi di “non avere tatto, rispetto dei
sentimenti, voi non capite che cosa significa il lavoro dell’attore”.
Io
e la mia collega, così, tanto per dividerci i meriti anche se non
c’erano, veniamo per così dire allontanati dai camerini del teatro di
via nazionale e, contemporaneamente, dal sogno della Grande Sala.
Sorrido? Sorrido!
Finita. Finita quell’ambizione, questa memoria,
questo racconto e, purtroppo, la vicenda di questo grande inventore che
mi piace ricordare qui con quel non premio come un premio e Gregoretti
come un leone che si batte contro la “visione scontata”, perseguendo la
scomoditĂ e il coraggio. Ecco, per me queste sono caratteristiche
vincenti che ne fanno un vero Maestro.